«Le parole sono pietre, non dovrebbe essere consentito adoperare la prima che viene come un fazzoletto di carta usa e getta» scrive Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera. A Gaza, osserva ancora Galli della Loggia, non mancavano termini forti per descrivere l’orrore: strage, massacro, eccidio. E invece no: si è scelta la parola più estrema, “genocidio”, come fosse una formula magica, l’unica capace di spalancare l’indignazione universale».

Il punto è proprio questo. La querelle sulla correttezza giuridica dell’uso del termine è meno rilevante del chiedersi perché quella parola sia diventata imprescindibile, quasi un lasciapassare morale, e quali siano le conseguenze del suo impiego comune e generalizzato, senza precedenti dalla Shoah in poi. Perché oggi basta criticare i massacri ma rifiutare l’etichetta di genocidio per essere bollati come complici di Netanyahu, messi all’indice da un’opinione pubblica che magari domani si sposterà altrove, ma che al momento appare unanime.

Liliana Segre, che più di chiunque altro avrebbe titolo per pronunciarsi, è stata trattata da complice della mattanza proprio perché si è rifiutata di accostare Gaza al genocidio nazista che lei stessa, bambina, subì. E questo dovrebbe bastare a misurare la temperatura del dibattito.

All’origine del marchio “genocidio” applicato a Israele c’è una lunga guerra semantica. Israele ha usato la memoria della Shoah come scudo, come mostrò Tom Segev nel Settimo milione. Era inevitabile che i nemici cercassero di ribaltare quell’arma contro lo Stato nato dalle ceneri dello sterminio: chiamarli a loro volta genocidi significava togliere loro la protezione morale che ancora oggi li difende, almeno in parte, da conseguenze concrete. Non a caso si è diffusa l’equiparazione, offensiva fino al parossismo, tra israeliani e nazisti, tra Gaza e Auschwitz: un’accusa che in Europa attecchisce anche per ragioni tutte interne, un bisogno di autoassoluzione collettiva che da decenni aleggia.

Ma il rischio è quello che segnalava Galli della Loggia nella sua “seconda osservazione”: chi grida al genocidio senza pensarci contribuisce a ridisegnare la storia, a togliere unicità ai drammi del Novecento, ad abbassare Auschwitz e l’Holodomor al rango di eventi ordinari, comparabili a molti altri. È una banalizzazione che finisce per fare il gioco del revisionismo, anche se mossa da intenti opposti. E c’è un paradosso ulteriore: sul fronte opposto, gli stessi governi israeliani abusano della parola “antisemitismo” per neutralizzare ogni critica. Così, tanto “genocidio” quanto “antisemitismo” vengono logorati, trasformati in piume. Ma non sono piume: sono le pietre angolari su cui l’Europa ha cercato di ricostruire sé stessa dopo la guerra, in termini culturali e morali prima ancora che istituzionali. Se anche queste parole diventano da talk show, da slogan di piazza, a cedere non saranno solo i concetti: rischia di incrinarsi l’intero edificio che su quei concetti si regge.