Esplode la reazione della magistratura associata contro la riforma imperniata sulla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. E arriva a minacciare lo sciopero mostrando una forza polemica inversamente proporzionale alla fragilità dei motivi della protesta. Si fa suonare a pieno regime la sirena dell’allarme, come se stesse per incendiarsi la casa della giustizia penale nascondendo così le vere ragioni del veto posto nei confronti di un distacco della costola rappresentata dai magistrati della accusa dal corpo unitario dei togati.

Appare in primo luogo inspiegabile la tardività della scesa in campo delle toghe. I magistrati sanno bene che da più di un anno pendono in sede parlamentare quattro disegni di legge sulle carriere separate, caratterizzati da due distinti organi di autogoverno, tutti testi normativi pressoché identici a quello sfornato ora dal governo. Ed è noto che su questi progetti la Commissione affari costituzionali della Camera ha alacremente lavorato tenendo anche numerose udienze conoscitive per raccogliere i pareri di pratici ed esponenti della cultura giuridica. Perché la magistratura ha mantenuto il silenzio su questa fase ed ha alzato la voce solo ora, dopo gli squilli di tromba del centrodestra? Era doveroso, tenuto conto dell’alto profilo istituzionale del tema sul tappeto, aprire un confronto sereno e ragionato invece di sbandierare slogan con in mano l’arma dello sciopero.

La cultura giuridica del nostro Paese, che è riuscita a dar vita, trent’anni fa, al codice di procedura penale di rito accusatorio contro gli sbarramenti di gran parte della magistratura, ha molto da dire sulla riforma del pubblico ministero. Oggi, invece, sottraendosi al dovere di ragionare sui principi e sulla Costituzione, si fa balenare il rischio occulto di un trascinamento delle Procure nell’area di dominio politico che fa capo all’esecutivo. Ma si tratta a ben vedere soltanto dell’agitarsi di un fantasma del passato. Infatti, con l’ombrello istituzionale del suo organo di autogoverno, costruito mediante una norma costituzionale di nuovo conio, le Procure sarebbero collocate in una sorta di cassaforte incapace di subire scossoni da parte di un Ministro della giustizia propenso a fare operazioni di vassallaggio. Dov’è allora quel pericolo di perdita dell’indipendenza che turba i sonni dell’Associazione nazionale magistrati? Sotto un altro profilo, si sostiene poi negli ambienti dei togati che è bene non allontanare troppo le Procure dalle posizioni dei giudici perché anche chi investiga e esercita l’azione penale dovrebbe avere una «cultura della giurisdizione» che tiene lontano un procuratore dall’agire partisan di un poliziotto. È però, una falsa prospettiva che denuncia in modo plateale l’incapacità di comprendere lo spirito del rito accusatorio. Il pubblico ministero non deve risciacquare i suoi panni nella tinozza del giudice altrimenti il suo ruolo diverrebbe quello di un fratello minore di chi ha il compito di emettere la sentenza. Anche la parte pubblica ha, del resto, obblighi di lealtà e correttezza ancor più stringenti di quelli del difensore e non c’è bisogno di trasformare un investigatore in un compagno di viaggio dell’organo giurisdizionale.

Qual è allora la vera ragione che spinge i magistrati sulle barricate pronti a respingere qualsiasi tentativo di dare una nuova fisionomia all’ufficio del pubblico ministero? C’è una sola spiegazione. Il vero e inconfessato motivo del dissenso è il timore che il distacco dei magistrati dell’accusa dall’odierno corpo unitario e coeso conduca ad un ridimensionamento della magistratura come struttura di potere. Oggi i pubblici ministeri sono gli interlocutori forti della politica perché hanno nelle loro mani le chiavi che possono mettere in moto il processo penale.

Amministratori pubblici ed esponenti dei partiti li temono perché sanno che non ci vuol nulla a scrivere un nome sul registro degli indagati così da bruciare in un lampo la credibilità costruita in una lunga carriera politica. È dunque una sciagura perdere l’unità, quale che sia la forma del distacco, e rinunciare al braccio secolare. Ma la separazione è richiesta proprio in conseguenza delle deformazioni subite nel tempo da un organo dell’accusa forte e con la inguaribile propensione a vestire i panni del paragiudice. Il processo accusatorio, introdotto nel nostro Paese nel 1988, reclama un procuratore di giustizia che non sia un gigante calato in una sede giudiziaria in cui deve confrontarsi con un difensore senza un adeguato scudo per fronteggiarlo. Ed è per questo che il traguardo della riforma non deve essere quello di un nuovo CSM che incoroni i rappresentanti dell’accusa per farli salire allo stesso piano in cui siedono i giudici. La separazione esige lo sbocco nella parità tra accusatore e difensore. Così hanno sempre pensato da decenni giuristi e avvocati penalisti nel nostro Paese. Dovrebbero ricordarsene tutti nel dibattito surreale di questi giorni in cui i retropensieri fanno precipitare il discorso ad un livello improduttivo e fuorviante.