Lo scorso week end, dopo il bombardamento monstre sui siti nucleari di Teheran tra la galassia digitale MAGA circolava un meme: il faccione di Donald Trump che, in una dissolvenza incrociata, si trasforma nel volto di Bush junior, il padre della “guerra infinita”. La base trumpiana si era chiesta con sconcerto perché il loro paladino avesse tradito le promesse della campagna elettorale, rinnegando improvvisamente la sua dottrina isolazionista e trasformandosi in un esportatore di democrazia come tanti altri suoi predecessori. Davvero l’America vuole tornare all’epoca dei neocon e infognarsi in una nuova avventura militare in Medio Oriente? Davvero i disastri in Iraq, Libia e Afghanistan non hanno insegnato nulla?

La tregua che ha imposto a Israele e Iran ha però dissipato (quasi) tutte le inquietudini dei MAGA stabilendo un punto fermo: gli Stati Uniti non hanno interesse a un cambio di regime in Iran, una possibilità a dire il vero evocata dallo stesso presidente Usa appena qualche giorno fa ma mai veramente perseguita nei piani militari del Pentagono. Nonostante l’imprevedibilità del suo comandante in capo, Washington non è così ingenua da credere che la caduta degli ayatollah per mano di potenze straniere possa avviare l’Iran verso la strada della democrazia, anche perché è uno scenario che finora non si è mai realizzato, in nessuna latitudine.

Al contrario la storia recente ci dice che Baghdad a Tripoli il caos da anni regna sovrano, mentre a Kabul sono ritornati direttamente i vecchi talebani dopo un ventennio di inutile occupazione militare. Ma Trump non era il cane da guardia di Israele, supino e a rimorchio degli interessi di Benjamin Netanyahu?

La museruola che ieri gli Usa hanno messo al premier israeliano rovescia questa narrazione delirante, che vede nello Stato ebraico e nelle sue fantomatiche lobbies il padrone di fatto dell’Occidente. Se esiste ancora un dominus nel mondo occidentale quello sono senza dubbio gli Stati Uniti d’America prima potenza economica e militare del pianeta; un aspetto che il tycoon ha voluto sottolineare con forza, probabilmente infastidito da chi lo aveva dipinto come un cameriere del suo alleato.

L’obiettivo di Bibi e del governo ultra-nazionalista di Tel Aviv era e rimane chiaramente un altro: distruggere la classe dirigente della repubblica islamica, individuata come l’architetto dei massacri del 7 ottobre e come una minaccia permanente per la sua esistenza. Gli attacchi al programma nucleare sono stati solamente il pretesto per attuare un disegno molto più ambizioso. Tutto il climax di guerra dell’ultimo anno e mezzo sta li a dimostrarlo: prima la riduzione ai minimi termini dei cosiddetti proxy di Teheran, le milizie di Hamas a Gaza e quelle di Hezbollah in Libano, poi l’attacco alla “testa del serpente”, favorito anche dalla fortunosa implosione della Siria di Bashar al Assad storico sodale di Teheran.

Immaginiamo la frustrazione di Netanyahu e dei suoi ministri, fermati dal potente alleato americano quando pensavano di essere a un passo dal bersaglio grosso. Conoscendo gli sbalzi d’umore e le giravolte improvvise di Donald Trump non è detto che gli scenari non cambino ancora nei prossimi giorni, ma di certo in Medio Oriente l’America per la prima volta ha posto un limite che nessun alleato può varcare, nemmeno lo Stato di Israele.