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ANTONIO DI PIETRO
Di ritorno dalle ferie ho letto una intervista dell’ex magistrato Antonio Di Pietro su Il Dubbio che ha ripetuto quello che aveva già detto in una lunghissima intervista su Il Foglio qualche mese fa. Di Pietro si dichiara favorevole alla distinzione dei “ruoli” tra i magistrati ma, in maniera veramente proditoria, nega che ci sia o ci sia stato “un appiattamento” del gip sul pm dovuto alla unicità della “carriera”.
Ho contestato nei mesi scorsi la intervista fatta al Foglio con dovizia di argomentazioni, ma è necessario che il Dubbio non faccia passare questa intervista senza contestarla a fondo. La considerazione di Di Pietro è ricorrente ed è fatta da tanti magistrati ai quali sfugge (e non fa onore alla categoria) il significato sistematico di un “istituito” che va valutato per la sua coerenza con l’ordinamento giuridico nel suo complesso. Il codice di procedura penale approvato negli anni 90 ha adottato il sistema accusatorio che sul piano sistematico non può non portare al superamento della unità della giurisdizione e quindi alla divisione del ruolo tra pm e giudice.
Ma Di Pietro mente sapendo di mentire perché sia gli addetti ai lavori sia un numero illimitato di cittadini sanno che il gip di Milano all’epoca di Tangentopoli era sempre e comunque il giudice Italo Ghitti (cosa completamente irregolare), che firmava tutte le proposte dei pm. Come si può sostenere il contrario? Anzi alcune “malelingue” per il passato hanno sostenuto che Ghitti firmasse addirittura preventivamente!
Più avanti Di Pietro dice che «Certamente i cittadini hanno meno fiducia di un tempo nella magistratura e sicuramente ciò è dovuto al martellamento continuo che è stato fatto in questi trent’anni da parte di certa politica verso l’opinione pubblica, per cui la colpa non è di chi commette i reati ma di chi li scopre». «Ciò premesso», continua Di Pietro, «occorre avere il coraggio, la responsabilità e l’umiltà di ammettere che a questa diversa valutazione da parte dei cittadini hanno concorso pure alcuni eccessi di zelo o alcune interventi della magistratura non in linea con ciò che prevede la procedura penale».
E poi aggiunge: «diciamo che l’attività inquirente di qualche pm molte volte invece di ricercare il colpevole di un reato ha messo in atto indagini a strascico per vedere se qualcuno avesse commesso un reato». Sembra incredibile ma alcune di queste espressioni sono proprio di Di Pietro che le pronunzia senza vergogna!
Il punto forte delle indagini del pool di Milano è stato il «non poteva non sapere» riferito all’indagato, che era un criterio perverso, astratto e privo di fondamento giuridico che non poteva assolutamente costituire appunto un indizio per proseguire le indagini, altro che prova, probabile prova!
Ho sempre sostenuto che il Parlamento e il presidente della Repubblica avrebbero dovuto intervenire in quel periodo in maniera forte per evitare il dilagare di comunicazioni giudiziarie che hanno inquinato lo Stato di diritto, e quindi la correttezza delle indagini. Il Parlamento è stato debole e remissivo e non ha avuto la forza politica di respingere tutte le richieste e le autorizzazioni a procedere che si fondavano su quel presupposto.
Il suo modo di procedere nelle indagini e nel rapporto con gli imputati era ben noto, lo faceva somigliare più alla figura del poliziotto che a quella del pubblico ministero, ma essendo pur sempre un magistrato e avendo un po’ di anni in più che dovrebbero portare saggezza, nella quiete del suo Molise, al contatto con la terra genuina e sincera, avrebbe dovuto riconoscere che l’azione della magistratura di quegli anni ispirata dai Pm di Milano e da lui in particolare, ha avuto una funzione fuori dalle regole istituzionali ideologizzando il suo ruolo come un ruolo politico, non al di sopra delle parti.
Il 73% degli imputati di Tangentopoli nei processi hanno ottenuto l’assoluzione perché è mancata una minima prova della corruzione, questa è la circostanza che sfugge in verità ai più.
In quel periodo c’era un furore implacabile che si scatenava non “in nome della legge”, ma “in nome dei pubblici ministeri” riprendendo il titolo di un mio libro di qualche anno fa che per primo ha approfondito organicamente questa problematica. Di Pietro aggiunge, (vorrei tanto che lo avesse fatto con ironia), che non ha esagerato nella carcerazione preventiva dimostrando una dimestichezza per la bugia!
Gli avvocati difensori, suggerivano ai loro assistiti di ammettere comunque qualche responsabilità per limitare i danni. Il pm che faceva parte del pool, Gherardo Colombo, aveva timidamente contestato questa ruvida prassi che il pool adottava perché si rendeva conto delle esagerazioni che ci furono.
Quindi si può comprendere, dopo queste semplici osservazioni, che quelli di Di Pietro erano solo “teoremi”, che hanno inciso profondamente sul ruolo della giustizia e sulla sua credibilità. Negli anni ’80 il popolo incitava i magistrati a “fare pulizia” e quindi il populismo dilagava con l’assoluta inconsapevolezza di tutta la magistratura, ma ora il populismo resta, e la credibilità è venuta meno.
La conseguenza è che sono stati distrutti i partiti e se Di Pietro non se ne rendeva conto e non se ne rende conto è perché non aveva adeguata perspicacia e dirigeva una catena di montaggio, per cui ogni mattina un ministro o un politico veniva arrestato sul presupposto che “non poteva non sapere”.
Quella rivoluzione giudiziaria, come fu definita da D’Alema, altro non è stata quindi che una incerta azione per l’esercizio del potere: un esercizio del potere giudiziario per cavalcare la “questione morale”, certamente presente nel Paese e nella coscienza dei cittadini, che ha contaminato la società e le istituzioni con un giustizialismo che arriva fino ai giorni nostri. La questione morale era diventata ed è diventata solo questione penale!
Queste valutazioni che sono sotto gli occhi di tutti sono estranee alla coscienza di Di Pietro che si sofferma con assoluta certezza su alcune sue “verità” che sono ormai respinte anche dall’opinione pubblica e che sono antistoriche.
«La corruzione è stata endemica e diffusa», è la tesi tradizionale dei pm, ma se è vero come è vero che circa il 73% degli imputati di Tangentopoli è stato assolto per “non aver commesso il fatto” dobbiamo immaginare che non vi erano le prove delle corruzioni.
Si trattava, per la grande maggioranza dei casi, di finanziamento irregolare non di corruzione: c’è una bella differenza tra i due reati! Il finanziamento illecito dei partiti è una cosa e la corruzione è un’altra cosa. Sono su due piani ben distinti.
Non si possono accettare dunque le dichiarazioni di Di Pietro perché sono offensive per il Paese e per le istituzioni. Credo che bastano questi pochi riferimenti alla sua intervista perché ci si renda conto del “suo orgoglio” per aver dato inizio, ad un’azione giudiziaria fuori dalle regole e dalla legge.
Di Pietro contribuisce alla ricostruzione delle vicende giudiziarie di Tangentopoli in poi con una narrazione non vera. Tangentopoli e Mafiopoli, volevano ricostruire la storia come una storia di malaffare dei partiti e delle istituzioni e l’opinione pubblica subisce ancora la conseguenza del populismo che si è determinato.
Ma non si trattò di un “sistema” criminale. Questo i magistrati e Di Pietro in particolare dovrebbero a cuor sereno ammetterlo unitamente al fatto che Tangentopoli travolse tutto, anche il diritto, come uno tsunami, un’onda anomala. È necessario ristabilire la verità per orientare l’opinione pubblica e ci sentiamo impegnati in questo senso.
I magistrati non sono chiamati a “scrivere la storia” ma a inquisire i singoli reati. Sull’argomento, Natalino Irti, nella sua sapienza giuridica e storica, ha scritto una pagina decisiva. La “soggezione del giudice alla legge”, tenuta per principio del moderno Stato di diritto e pure accolta nella nostra Carta costituzionale, non è soltanto garanzia di autonomia e indipendenza, ma anche misura e limite della potestà giudiziaria.
Mi dispiace che Di Pietro non senta il minimo bisogno alla sua età di rivedere con serenità le sue vecchie posizioni per dare un contributo alla riconciliazione del paese.