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Il ministero della Giustizia
Circola l’idea, anche autorevolmente esposta, secondo cui l’abrogazione del delitto di abuso d’ufficio, contemplata da una legge appena promulgata dal Presidente della Repubblica, alimenti il malaffare e generi un colpo “all’etica pubblica”. Al di là dei rilievi di matrice costituzionale e sovranazionale della scelta legislativa – sui quali non intendo qui soffermarmi – non condivido il pensiero di fondo perlomeno per quattro ragioni.
Innanzitutto, esso insinua gratuitamente il sospetto che il Ministro della Giustizia proponente e la maggioranza parlamentare, nell’abolire quel reato, celino un’implicita vocazione protezionistica verso condotte antisociali, trascurando che delle migliaia di procedimenti penali sinora aperti per abuso d’ufficio solo pochi sono arrivati alla fase del giudizio e, di questi, pochissimi si sono conclusi con una condanna. Così stando le cose, si tralascia – ed è la principale ragione dell’intervento normativo – che l’avvio di un’indagine da parte della Procura produce effetti paralizzanti sul funzionamento degli enti pubblici anche se sarà disposta in seguito l’archiviazione o sopraggiungerà una sentenza di proscioglimento; pertanto, la permanenza di quel delitto nel sistema si è rivelata un rimedio peggiore del male.
In secondo luogo, sostenere che, eliminando l’abuso d’ufficio, cresce il malaffare costituisce una congettura perversa, secondo cui i pubblici funzionari sarebbero inclini all'illecito per loro natura, e solo la fattispecie incriminatrice espunta dall’ordinamento costituirebbe un efficace disincentivo; a parte il preteso fattore delinquenziale qualificato, nemmeno è dimostrabile che la previsione abrogata fosse dotata di una reale capacità preventiva, mentre è un fatto che la sua presenza abbia frenato le procedure amministrative del Paese. D’altro canto, niente impone che la profilassi verso comportamenti antigiuridici dei soggetti pubblici intervenga con la minaccia del carcere, potendo più adeguatamente predisporsi tramite accurate modalità di controllo nella catena di formazione degli atti, disincentivi professionali per i responsabili o risultati economici per i virtuosi.
Ancora, postulare che il diritto penale serva all'etica pubblica, equivale a riproporre schemi molto distanti da uno Stato laico che, invece, si preoccupa di tutelare la libertà di autodeterminazione individuale e la trasparenza nei rapporti economici, disinteressandosi ai fattori di una pretesa coscienza collettiva alla quale ancorare i singoli comportamenti; peraltro, bisognerebbe interrogarsi sui contenuti e sui limiti dell’etica pubblica, cioè di che si tratta, profili inscindibilmente legati alle dottrine ideologiche dove non alberga mai il dubbio.
Infine, ritenere l’etica pubblica compromessa dall’abolizione dell’abuso d’ufficio rischia di valorizzare un deprecabile approccio in base al quale l'intervento giudiziario costituisce un mezzo di lotta ai costumi che non si conformano all’ideologia fondante la cosiddetta coscienza collettiva; e così, complice il ridotto tasso di determinatezza della norma penale, si giustifica un impiego eterodosso degli utensili processuali (intercettazioni, misure cautelari, sequestri informatici, ecc.) in una prospettiva “moralizzatrice”: un fenomeno autoritario, affetto dall’ossessione del pensiero unico, che affida al potere giudiziario il compito di stabilire ciò che è bene e ciò che è male, con lo scopo di uniformare lo statuto morale del Paese.