Una cella di quattro metri per due nel cuore di Roma. Un monito, un grido silenzioso che il Dubbio lancia a nome di chi non ha voce. Parliamo delle oltre 60mila persone detenute che sono ammassate nelle fatiscenti carceri italiane, lì dove si consuma nel modo più evidente il tradimento dei principi costituzionali, a cominciare dall’articolo 27 che recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

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Quella cella di isolamento che installeremo domani mattina a piazza di Pietra sarà a disposizione di chi vorrà provare, per 5 minuti, a capire cosa significa passare uno, due, dieci anni in condizioni del genere. Perché, come ricordava Piero Calamandrei – resistente, costituente, avvocato e storico presidente del Consiglio nazionale forense – «bisogna vedere, bisogna starci, per rendersene conto».

Eppure parlare di carcere è da folli, perché a nessuno, o quasi, interessa la sorte di chi vive lì dentro. Che siano detenuti o operatori. Il carcere non porta voti, non dà visibilità. E prendersi cura dei diritti dei “carcerati” , come spiegano i sociologi, è controintuitivo. Molto più facile e immediato lo slogan cattivista del “buttiamo la chiave e lasciamoli marcire in cella”.

Insomma, il carcere rappresenta la nostra cattiva coscienza e come tale deve rimanere ai margini del dibattito pubblico. C’è solo un momento in cui il carcere riesce a rompere il muro del silenzio: accade quando il numero dei suicidi diventa talmente alto da riuscire a scuotere, anche solo per un istante, le nostre coscienze distratte.

E allora vi aspettiamo a piazza di Pietra per raccogliere l’appello del Capo dello Stato e di Papa Francesco, che da giorni, settimane, mesi, lanciano allarmi inascoltati sulla strage di suicidi dietro le sbarre. Ci vedremo lì per provare, per vedere e riflettere insieme nella sala del Tempio di Adriano, dove parleremo di come riportare il carcere nella “legalità” costituzionale.