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ROBERTO GIACHETTI POLITICO
C'è un filo invisibile che lega le celle dei penitenziari italiani. Un filo nero, spesso, che corre da una sezione all'altra, da un istituto all'altro. È il filo della solitudine, dell'abbandono terapeutico, del disagio psichico che diventa condanna a morte. Vasile Stefan, 34 anni, rumeno, ne ha seguito il percorso fino all'ultimo nodo: l'impiccagione nella cella numero 4 del piano terra della sesta sezione del carcere di Genova Marassi, a gennaio 2022. È morto all'ospedale San Martino dopo alcuni giorni di agonia. Un caso archiviato troppo in fretta e che oggi ritorna sotto i riflettori grazie a un atto parlamentare che punta a smontare la coltre di opacità che avvolge quella vicenda.
Roberto Giachetti, deputato di Italia Viva e da anni, da buon radicale, impegnato sul fronte dei diritti dei detenuti, nell’interrogazione rivolta al ministro della Giustizia e a quello della Salute, non si limita a ricordare una morte: scoperchia il buco nero della psichiatria penitenziaria, quello spazio dove i protocolli esistono sulla carta ma scompaiono nella realtà delle sezioni.
LA CRONACA DI UN'AGONIA ANNUNCIATA
Vasile Stefan non era un detenuto qualunque. O meglio, era uno di quei detenuti che il sistema avrebbe dovuto proteggere, curare, seguire con attenzione. Già da giugno 2021, le relazioni del personale di Marassi lo segnalano come soggetto da tenere sotto “attenta sorveglianza” per problematiche psichiatriche. Un bollino rosso che, almeno sulla carta, implica un regime di monitoraggio costante. Eppure quel monitoraggio si è rivelato tutto fuorché terapeutico.
Il 25 giugno 2021 si registra l'episodio più significativo: Vasile viene trasferito dopo una grave reazione agitata, accompagnata da gesti autolesivi. Calci e pugni contro il muro, colpi di testa contro lo spioncino della cella. Il personale annota la difficoltà nell'allocazione del detenuto: crisi di pianto, urla frequenti, comportamenti che influenzano negativamente gli altri reclusi. Vasile parla da solo, non dorme, sottrae sigarette ai compagni. Tutti segnali chiarissimi di un disagio psichico che esplode, che chiede aiuto.
Ma l'aiuto non arriva. O arriva nella forma peggiore: lo spostamento da una cella all'altra, la sorveglianza visiva degli agenti di polizia penitenziaria, la convivenza forzata con detenuti che non hanno gli strumenti per gestire la fragilità altrui. Il 30 dicembre 2021 Vasile viene trasferito al piano terra della sesta sezione e assegnato in cella con il detenuto D. D. P. Il primo gennaio 2022 – e già questa data dovrebbe far riflettere – il compagno di cella appicca un incendio per protesta. Protesta contro la convivenza forzata con un “pazzo”, accusa Vasile di avergli finito il tabacco. La risposta del sistema è l'isolamento. Vasile viene sottoposto a valutazione medica che rileva “stato di agitazione associato a manifestazioni paranoidi” e finisce nella cella numero 4, da solo. È lì che, poco dopo, tenta il suicidio mediante impiccagione. Morirà all'ospedale alcuni giorni dopo.
LE DOMANDE CHE SCOTTANO
L'interrogazione di Giachetti è un atto d'accusa preciso. Il deputato di Italia Viva cita la relazione del consulente tecnico della procura nel procedimento – poi archiviato – contro il medico chirurgo M. P., in servizio il giorno del tentativo di suicidio. Quella relazione è impietosa: il rischio suicidario era chiaramente segnalato, le annotazioni sul disagio psicologico erano costanti, i pensieri paranoici e le paure generalizzate erano evidenti. Gli eventi critici occorsi durante la detenzione avrebbero richiesto “un monitoraggio clinico accurato e non meramente visivo da parte degli agenti, con regolari colloqui psicologici e frequenti valutazioni psichiatriche, come previsto dai protocolli di prevenzione”. Invece, la documentazione sanitaria parla di “visite specialistiche sporadiche”, nonostante le numerose segnalazioni. È su questo punto che Giachetti affonda il bisturi. Le domande poste al ministro della Giustizia e al ministro della Salute sono tre, ma potrebbero valere per centinaia di casi simili sparsi nei penitenziari italiani.
Primo: quanti colloqui psicologici e quante visite psichiatriche ha effettivamente ricevuto Stefan Vasile durante la detenzione a Marassi, in particolare dal giugno 2021 fino al gesto autolesivo? È la domanda più semplice, ma anche quella che mette il dito nella piaga. Perché se la risposta sarà quella che si può intuire dalla documentazione acquisita dalla procura, allora emergerà con chiarezza che l'attenta sorveglianza era in realtà un'attenta indifferenza terapeutica.
Secondo: quanti sono i casi psichiatrici a Marassi e come viene assicurata l'assistenza psichiatrica e psicologica? Quanti specialisti psichiatri ci sono e quale copertura oraria settimanale garantiscono? Sono previsti tecnici della riabilitazione psichiatrica e con quale presenza? Sono domande che fotografano l'inadeguatezza strutturale del sistema. Perché i detenuti con disagio psichico non sono eccezioni, sono una parte consistente della popolazione carceraria. E se non ci sono risorse, professionisti, ore di terapia sufficienti, allora il problema non è solo di Marassi, ma sistemico.
Terzo: in cosa consiste e come si articola il protocollo per la prevenzione delle condotte suicidarie presso il carcere di Marassi? È la domanda che dovrebbe mettere in imbarazzo chi si riempie la bocca di procedure, linee guida, best practices. Perché i protocolli ci sono, sulla carta. Ma se poi un detenuto segnalato come a rischio, seguito, isolato, finisce comunque col togliersi la vita, allora forse quei protocolli sono carta straccia.
Nel 2022 il ministero della Giustizia ha indetto una procedura per l'affidamento di 6 incarichi professionali a esperti psicologi, criminologi e pedagogisti con competenze nel trattamento di soggetti a rischio suicidario, segno che la criticità era nota e certificata. Ma evidentemente sei figure professionali a tempo determinato non bastano a coprire i bisogni di quasi 700 detenuti del Marassi, molti dei quali con fragilità psichiche evidenti. Il caso di Vasile Stefan non è isolato. Nel 2024 un giovane di 21 anni è morto dopo il ricovero nel reparto di assistenza intensificata: in quel caso due agenti sono stati indagati per omicidio colposo. È la conferma che il sistema non funziona, che la fragilità psichica viene identificata ma non curata, che tra la diagnosi e la terapia c'è un vuoto in cui le persone muoiono.
L’ “attenta sorveglianza” si è rivelata un'etichetta burocratica, un timbro su una cartella che non ha impedito la tragedia. I protocolli di prevenzione del suicidio esistono, ma nella pratica quotidiana delle sezioni sovraffollate, con personale sanitario insufficiente e carico di lavoro insostenibile, quei protocolli si dissolvono. Il filo conduttore è sempre lo stesso: detenuti fragili, segnali ignorati, protocolli che restano sulla carta. L’atto di Giachetti, più che una richiesta tecnica, diventa così un’accusa politica: il carcere continua a essere un buco nero dove i malati psichiatrici non ricevono cure adeguate e la prevenzione dei suicidi resta affidata alla buona volontà di chi è in turno. Ora tocca al ministro Nordio e al ministro Schillaci rispondere.
Ma la vera domanda è un’altra: quanto ancora si può nascondere la morte dietro le statistiche, prima che lo Stato ammetta che il sistema penitenziario, così com’è, non garantisce né sicurezza né dignità?