Ventiquattro ore. Questo il tempo che intercorre tra l'arresto di Sylla Mamadou Khadialy e la sua morte nella cella del carcere “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua Vetere. Un lasso di tempo brevissimo che racchiude una tragedia umana e istituzionale, l'ennesima morte in custodia dello Stato che getta ombre inquietanti sulle condizioni del sistema penitenziario italiano e sulla capacità delle istituzioni di tutelare la vita di chi entra in carcere.

Sylla Mamadou, 35 anni, cittadino senegalese residente a Casagiove, dipendente presso la prestigiosa sartoria Isaia di Casalnuovo di Napoli, fidanzato con una ragazza italiana, aveva una vita normale fino al 25 settembre scorso. Quel giovedì mattina viene fermato alla stazione ferroviaria di Caserta con l'accusa di aver rapinato un cellulare e di aver opposto resistenza agli agenti della Polizia Ferroviaria intervenuti. Ma già al momento del fermo emerge un elemento che dovrebbe far scattare tutti gli allarmi: Sylla si trova in uno stato di evidente agitazione psicomotoria.

La spirale dell'emergenza psichiatrica ignorata

Quello che accade nelle ore successive è un susseguirsi di falle nel sistema, un passaggio di consegne tra istituzioni in cui la persona al centro dell'attenzione viene progressivamente spogliata della sua umanità e ridotta a un problema da contenere, piuttosto che a un essere umano da salvare. Dopo il fermo, Sylla viene trasferito al pronto soccorso dell'ospedale di Caserta. È qui che si consuma il primo, devastante, fallimento.

Un uomo in stato di agitazione psicomotoria viene portato in ospedale, presumibilmente gli vengono somministrati sedativi, ma dopo circa otto ore – otto ore che restano avvolte nell'oscurità dell'assenza di documentazione chiara – viene dimesso. Dimesso nonostante si trovi ancora in uno stato di alterazione e aggressività. “Come è possibile?”, si chiedono i garanti Samuele Ciambriello, per la Regione Campania, e don Salvatore Saggiomo, per la Provincia di Caserta, che con fermezza hanno preso posizione su questa vicenda. Il giovane, che dovrebbe essere oggetto di attenzione medica specialistica, viene invece trasferito nella Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere. E qui inizia l'ultimo, drammatico capitolo della sua esistenza.

All'ingresso in carcere, lo scenario è ancora più allarmante. Sylla presenta uno stato di dissociazione dalla realtà, manifesta una forte agitazione e assume atteggiamenti aggressivi verso chiunque gli si avvicini. Per motivi di sicurezza viene posto in isolamento nella cella di matricola, ma ogni tentativo di avvicinamento da parte del personale sanitario o penitenziario viene respinto con violenza. Si tenta anche un approccio mediato da un altro detenuto, ma l'iniziativa si rivela infruttuosa a causa dell'eccessiva agitazione del giovane.

Lo psichiatra dell'istituto lo valuta e arriva a una conclusione che dovrebbe suonare come un campanello d'allarme assordante: le condizioni di Mamadou sono tali da rendere inefficace una sedazione immediata in carcere. È necessario, rileva il medico, un trasferimento urgente in una struttura ospedaliera specializzata in emergenze psichiatriche acute. Viene richiesto l'intervento del 118, ma – ed è questo uno dei nodi più oscuri della vicenda – la procedura di Trattamento Sanitario Obbligatorio non viene attuata. Il personale sanitario somministra farmaci, ma il medico penitenziario non viene informato né sulla tipologia né sul dosaggio. Una catena di mancate comunicazioni, di procedure non rispettate, di protocolli disattesi. E nel mezzo di tutto questo, un uomo che muore.

Quando il corpo senza vita di Sylla Mamadou viene trovato nella sua cella, è venerdì 26 settembre. Avrebbe dovuto esserci l'udienza di convalida dell'arresto quel giorno. Invece ci sarà un'autopsia, disposta dalla Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere, per fare luce sulle cause del decesso.

Un sistema al collasso: l'infermeria chiusa da mesi

Ma c'è un ulteriore elemento che rende questa tragedia ancora più inquietante, un contesto che trasforma un caso apparentemente isolato in sintomo di una malattia sistemica: l'infermeria del carcere di Santa Maria Capua Vetere è chiusa dal 16 luglio 2025, per disposizione dei dirigenti sanitari. Da oltre due mesi, una struttura che ospita centinaia di detenuti – l'istituto "Francesco Uccella" è composto di sei reparti che accolgono oltre mille persone, tra cui un'articolazione per la tutela della salute mentale – non dispone di un'infermeria funzionante. Le conseguenze sono drammatiche: i detenuti sono privi di accesso tempestivo a cure e terapie, il personale penitenziario si trova in difficoltà nella gestione delle emergenze sanitarie.

Don Salvatore Saggiomo aveva lanciato l'allarme già ad agosto, denunciando una “emergenza umanitaria” e una “situazione al collasso”. Le sue parole, purtroppo, si sono rivelate profetiche. «Ho riscontrato una situazione allarmante: l'infermeria è chiusa e non è stata ancora riattivata», aveva dichiarato il Garante provinciale, sottolineando come alla chiusura dell'infermeria si affiancassero altre gravi criticità, tra cui la carenza cronica di personale sanitario e il sovraffollamento.

Le domande senza risposta e l'appello dei garanti

Dopo la visita effettuata presso la Casa Circondariale, il Garante regionale Ciambriello è prontamente intervenuto con una comunicazione alla direttrice dell'istituto penitenziario e al responsabile della direzione sanitaria. Le domande che pone sono dirette, puntuali, imprescindibili per ricostruire la verità: «Chiedo di conoscere con urgenza gli eventi che si sono susseguiti a partire dal momento del suo ingresso in Istituto, quando è stato visitato dal medico presente in carcere, lo stato psico-fisico in cui è arrivato, e se sono state utilizzate misure di contenimento. Quali sono state le cause accertate al momento della dichiarazione del decesso».

E ancora, elemento fondamentale: «Chiedo di conoscere se sia stato applicato il protocollo per le lesioni di dubbia origine, che attraverso l'utilizzo di fotografie testimonia le eventuali lesioni del detenuto. Un protocollo che credo sia stato accettato e firmato, in caso contrario vorrei avere notizie in merito». Tra i dubbi che aleggiano sulla vicenda c'è anche quello relativo alla Tac che sarebbe stata eseguita all'ospedale di Caserta e che sarebbe risultata negativa. Ma come è possibile effettuare un esame così complesso su un paziente in forte stato di agitazione? E soprattutto, quale valore diagnostico può avere un esame eseguito in quelle condizioni?

La famiglia di Sylla, attraverso l'avvocato Clara Niola, ha sporto denuncia chiedendo che sul decesso venga fatta piena luce. Martedì 30 settembre, il centro sociale Ex Canapificio ha organizzato una marcia da piazza Dante alla Prefettura di Caserta per chiedere giustizia per Sylla Mamadou. «Il decesso di Sylla Mamadou rappresenta un evento gravissimo che impone una riflessione profonda», dichiarano all'unisono Ciambriello e Saggiomo. I due garanti richiedono con forza «chiarezza e trasparenza sulle procedure adottate, una verifica rigorosa delle responsabilità, la riapertura immediata dell'infermeria penitenziaria e l'applicazione rigorosa dei protocolli per il rilevamento e la documentazione delle lesioni di dubbia origine».

La morte di Sylla Mamadou Khadialy non è solo una tragedia personale e familiare. È la cartina di tornasole di un fallimento collettivo, di uno Stato che perde per strada la sua responsabilità primaria: proteggere la vita di chi, per qualunque ragione, si trova in custodia. È l'ennesima morte in carcere che si aggiunge a una lista troppo lunga, è l'ennesimo grido d'allarme che rischia di cadere nel vuoto. Ora toccherà all'autopsia e alle indagini della Procura fare luce sulle responsabilità. Ma qualunque sia l'esito degli accertamenti, una verità è già inequivocabile: il sistema ha fallito. E Sylla Mamadou ne ha pagato il prezzo più alto.