Per la prima volta un ergastolano condannato per reati di mafia potrà vivere momenti di intimità con la propria moglie senza il controllo a vista degli agenti. Lo ha deciso il Tribunale di Sorveglianza di Bologna con l'ordinanza depositata l'11 novembre, accogliendo il reclamo presentato dall'avvocata Pina Di Credico. Trent'anni di carcere, trent'anni duranti i quali il colloquio è stato consumato sotto lo sguardo della polizia penitenziaria. Adesso quella sorveglianza viene meno. Non come premio, ma come diritto.

L'ordinanza è la traduzione concreta di quella sentenza numero 10/2024 con cui la Corte Costituzionale aveva finalmente riconosciuto che l'affettività, anche dietro le sbarre, non può essere cancellata. Che la privazione della libertà personale non può tradursi nell'annullamento della persona e dei suoi legami. Che la sessualità, come scrissero i giudici costituzionali già nel 1987, è “uno degli essenziali nodi di espressione della persona umana”. E che un ergastolo, per quanto pesante, per quanto meritato, non può diventare la condanna a morte della propria umanità. Non una concessione discrezionale, ma un diritto costituzionalmente garantito.

La storia comincia con una richiesta semplice, quasi banale nella sua naturalezza: un detenuto, recluso dal 1995 per camorra – il clan Gionta di Torre Annunziata – e per concorso in omicidio aggravato, chiede di poter vedere la moglie senza che un agente li osservi. La direzione del carcere di Parma, dove l'uomo è ristretto, nicchia. Risponde che è in attesa di direttive dai “superiori Uffici”. Poi individua dei locali nel padiglione dei colloqui, ma intanto il Magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia dice no. Diniego. E lo motiva con un'argomentazione che, fino a ieri, sarebbe sembrata blindata: profilo criminale pericoloso, familiari coinvolti in attività mafiose, rischio che attraverso la moglie possano arrivare messaggi dal clan. E poi quella condotta “altalenante” in carcere, quei rilievi disciplinari, ultimo dei quali a giugno scorso: in cella trovati un tubetto di colla Super Attack e un tavolo manomesso. Insomma, troppo rischioso.

La difesa, l'avvocata Di Credico, non ci sta. E presenta reclamo al Tribunale di Sorveglianza di Bologna. Le sue argomentazioni sono nette, quasi chirurgiche. Primo: il detenuto già oggi fa colloqui con la moglie senza controllo auditivo. Significa che se volesse passare messaggi al clan, potrebbe già farlo. Il colloquio intimo non aggiunge nessun nuovo rischio per la sicurezza, è solo una modalità più umana dello stesso diritto già esercitato. Secondo: trent'anni di detenzione sostanzialmente corretta. Un percorso formativo che lo ha portato dall'analfabetismo giovanile al ciclo universitario. Liberazione anticipata concessa per molti semestri. Remissione del debito.

E quel rilievo disciplinare di giugno? La camera era stata occupata da poco. Il precedente inquilino era stato trasferito proprio perché trovato con telefoni cellulari. Non è mai stato chiarito se la direzione avesse controllato la cella prima di farci entrare il nuovo detenuto. Terzo, e qui sta il cuore della questione: il colloquio intimo è un diritto costituzionalmente garantito, non un premio da meritare. Non si può negare per mancanza di “meritevolezza”.

Ed è su questo punto che il Tribunale di Bologna costruisce la sua decisione. Una decisione articolata su tre pilastri argomentativi che ridefiniscono il perimetro della questione. Il primo pilastro è proprio la natura giuridica di ciò di cui stiamo parlando. Il detenuto non sta chiedendo un permesso premio. Sta chiedendo di esercitare in modo diverso un diritto che già esercita da trent'anni: il colloquio con la moglie. Da trent'anni la vede, le parla, la abbraccia. Ma solo questo e sotto l’occhio vigile di un agente. Adesso chiede di farlo senza.

È la stessa cosa, ma più umana. E questa differenza, scrive il Tribunale, non è banale. Perché tocca “un bisogno di vita come quello affettivo-sessuale che costituisce uno dei connotati indefettibili dell'essere umano attraverso cui si definisce la sua personalità”. Non è un lusso. È un diritto. Che può essere compresso, certo, ma solo “per effettive ragioni di ordine e sicurezza riferibili alla singola persona detenuta”.

E qui entra in gioco il secondo pilastro: quali sono queste ragioni di sicurezza? Il Magistrato di Reggio Emilia aveva puntato molto sulla pericolosità “esterna” del detenuto. L'informativa della Dda di Napoli, il clan ancora operativo, i familiari coinvolti, il rischio di messaggi. Ma il Tribunale di Bologna fa un ragionamento dirompente: tutto questo non c'entra nulla. Perché non stiamo parlando di un beneficio che porta il detenuto all'esterno del carcere, dove effettivamente la sua pericolosità sociale potrebbe manifestarsi.

Stiamo parlando di una modalità di colloquio dentro il carcere. E la Corte Costituzionale, nella sua sentenza, parla chiaro: bisogna guardare al “comportamento della persona detenuta in carcere”, alle “ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell'ordine e della disciplina”. Dentro, non fuori. E poi c'è un altro aspetto decisivo: i detenuti per reati come quello del recluso in questione già oggi fanno colloqui senza controllo auditivo. Significa che la conversazione è riservata. Se volesse scambiare informazioni con il clan attraverso la moglie, potrebbe già farlo nei colloqui ordinari. Il colloquio intimo non aggiunge vulnerabilità alla sicurezza.

Il terzo pilastro riguarda invece la pericolosità “interna”. Qui sì che il comportamento in carcere conta. Ed è qui che il Tribunale fa la differenza rispetto al primo giudice. Guarda al percorso, non al singolo episodio. Trent'anni di detenzione. Un uomo entrato analfabeta, arrivato all'università. Storia dell'Arte a Prato, poi corsi alberghieri a Parma. Relazioni che lo descrivono “educato e cortese”, “intenzionato a prendere le distanze dal contesto sociale di provenienza”. Rilievi disciplinari solo per proteste pacifiche: chiedeva trasferimenti, isolamento volontario. Mai violenze, mai sommosse.

E quell'episodio di giugno? Il Tribunale lo contestualizza. Camera occupata da poco, precedente inquilino trasferito per telefoni cellulari. Il detenuto ha sempre disconosciuto responsabilità. Sanzione sospesa per buon comportamento. Il Tribunale scrive una frase che vale tutto: “Il carcere non può essere mai il luogo in cui si cristallizzano valutazioni negative non ulteriormente rivedibili”. Una persona può cambiare, evolversi. Altrimenti che senso ha parlare di rieducazione? E qui c'è un uomo che ha mostrato evoluzione. Che ha iniziato riflessione critica sui reati, versa somme alle vittime della mafia. Allora quel diritto va riconosciuto. Non come premio, ma come diritto.

Il Tribunale chiarisce: riconoscere questo diritto non significa aprire a tutti. La valutazione è caso per caso. I detenuti al 41 bis sono esclusi. Per i reati di mafia la valutazione deve essere “più stringente”. Ma più stringente non significa automaticamente negativa. Significa guardare con attenzione. E guardando, il Tribunale ha visto un percorso positivo. Trent'anni senza problemi durante i colloqui con la moglie. Mai trovato con oggetti non consentiti. Mai partecipato a disordini.

L'ordinanza si chiude con un dispositivo asciutto: colloqui intimi senza controllo a vista, negli spazi che Parma individuerà entro sessanta giorni. Sessanta giorni per dare attuazione a un diritto negato per trent'anni. Per chi ha passato tre decenni senza intimità, sono un'eternità. E forse il tempo giusto per un cambiamento che non riguarda solo lui. Riguarda il sistema. Riguarda cosa significa essere detenuti in uno Stato di diritto. Dove la pena non può trasformarsi in annullamento. Dove la dignità resta intatta, anche dietro le sbarre. Perché chi resta dentro, all'ergastolo, deve poter mantenere quella scintilla di umanità. Altrimenti non parliamo di rieducazione. Parliamo solo di vendetta. E lo Stato di diritto non può permetterselo.