Una nota del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria rischia di paralizzare le attività trattamentali in buona parte delle carceri italiane. È questa la denuncia che emerge dall'interrogazione parlamentare presentata martedì scorso dal deputato Roberto Giachetti di Italia Viva e dai durissimi comunicati del Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza e di AreaDG.

Al centro della polemica c'è la circolare n. 454011 del 21 ottobre scorso, con cui il direttore generale dei detenuti e del trattamento ha deciso di accentrare su Roma tutte le autorizzazioni per gli eventi di carattere educativo, culturale e ricreativo che si svolgono negli istituti penitenziari dove sono presenti sezioni di alta sicurezza, collaboratori di giustizia o detenuti sottoposti al regime del 41-bis. Una stretta burocratica che rappresenta “un deciso arretramento rispetto al modello di esecuzione penale” pensato cinquant'anni fa dall'ordinamento penitenziario.

Tutto passa da Roma

La novità introdotta dalla nota del Dap è apparentemente tecnica, ma le sue conseguenze sono potenzialmente devastanti. D'ora in poi, ogni volta che un'associazione, una cooperativa o un volontario voglia organizzare un laboratorio, un corso o un incontro in un carcere dove sono presenti detenuti di alta sicurezza o in regime speciale, l'autorizzazione dovrà passare dalla scrivania del direttore generale a Roma. E questo vale anche quando l'evento è destinato esclusivamente ai detenuti del circuito di media sicurezza che si trovano nello stesso istituto, ma in sezioni completamente separate.

Il punto è che stiamo parlando della stragrande maggioranza delle carceri italiane. I detenuti di alta sicurezza sono circa 8.800, distribuiti in decine di istituti su tutto il territorio nazionale. La nuova procedura si applicherà indistintamente a tutti questi istituti, con un effetto domino che il Coordinamento dei magistrati di sorveglianza non esita a definire allarmante: “Un aggravio notevolissimo circa i tempi di definizione delle autorizzazioni e la conseguente inevitabile riduzione delle attività trattamentali”.

C'è però un problema ancora più profondo. L'articolo 17 dell'ordinamento penitenziario, quello che disciplina la partecipazione della comunità esterna all'azione rieducativa, stabilisce con chiarezza che devono essere il magistrato di sorveglianza e il direttore del carcere a decidere chi può entrare in un istituto penitenziario. Non è una scelta casuale: direttori e magistrati di sorveglianza conoscono direttamente la popolazione detenuta, sanno quali sono le risorse del territorio, possono valutare caso per caso l'utilità di un'iniziativa con i percorsi individuali di risocializzazione.

La circolare del Dap, secondo Giachetti e i magistrati di sorveglianza, rovescia questa logica. Introduce un controllo dall'alto che burocratizza e centralizza decisioni che per loro natura dovrebbero essere prese a livello locale. “Viene svilito il ruolo dei Direttori d'Istituto”, scrive il Coordinamento dei magistrati, "per i quali sarà ancor più complesso riuscire a realizzare le attività previste dalla programmazione annuale". E viene esautorato, di fatto, anche il magistrato di sorveglianza, che pure l'ordinamento penitenziario indica come la figura chiamata a verificare la coerenza delle attività proposte con il concreto percorso rieducativo.

Il paradosso: meno trattamento nel momento del sovraffollamento

La circolare arriva nel momento peggiore. Le carceri italiane vivono una delle emergenze più drammatiche della loro storia recente: sovraffollamento crescente, condizioni insostenibili, suicidi che non si fermano. In questa situazione, le attività trattamentali rappresentano spesso l'unico elemento che permette di mantenere un minimo di tensione vivibile dentro gli istituti, l'unica occasione per i detenuti di mantenere un contatto con il mondo esterno, di formarsi, di costruire prospettive.

Associazioni come Nessuno tocchi Caino o Ristretti Orizzonti hanno costruito negli anni una rete capillare di laboratori, incontri, redazioni di giornali. La preoccupazione, espressa con forza da Giachetti nella sua interrogazione, è che la nuova stretta burocratica finisca per paralizzare proprio queste attività, quelle che più di tutte incarnano il principio costituzionale della finalità rieducativa della pena.

Il Coordinamento dei magistrati di sorveglianza non usa mezzi termini: “Vista la drammatica situazione in cui versano gli Istituti penitenziari, la scelta adottata dal Dipartimento rischia di consegnarci un carcere dove le occasioni di confronto con l'esterno, le opportunità di formazione e le possibilità di crescita culturale in favore dei detenuti saranno sempre meno”. Mentre Giachetti, nell’interrogazione, richiama anche le Regole penitenziarie europee, che stabiliscono che “la vita in carcere deve essere il più vicino possibile agli aspetti positivi della vita nella società libera” e che “devono essere incoraggiate la cooperazione con i servizi sociali esterni e la partecipazione della società civile”.

La circolare del Dap sembra andare nella direzione opposta. Invece di incoraggiare la partecipazione della società civile, la sottopone a una procedura così farraginosa da scoraggiarla. E lo fa proprio nell'anno in cui l'ordinamento penitenziario compie cinquant'anni. Un ordinamento che nel 1975 aveva scardinato la logica puramente custodialistica del vecchio regolamento carcerario mettendo al centro la finalità rieducativa della pena, l'individualizzazione del trattamento, l'apertura al territorio.

Logica unicamente repressiva

Il gruppo di lavoro di AreaDG punta il dito contro il ministero della Giustizia: “Ormai totalmente inerte di fronte ad un sovraffollamento carcerario in costante e allarmante crescita, continua ad adottare misure e provvedimenti che rispondono unicamente ad astratte finalità repressive e sicuritarie e che sacrificano ingiustificatamente le finalità del trattamento e della rieducazione”.

È un'accusa pesante, che fotografa un clima di crescente sfiducia tra chi lavora sul campo dell'esecuzione penale e chi governa le politiche penitenziarie a livello centrale. La nota del Dap, secondo questa lettura, non sarebbe un semplice provvedimento organizzativo ma l'ennesimo segnale di una visione del carcere che privilegia la custodia sulla risocializzazione, il controllo sul trattamento.

Nell'interrogazione parlamentare, Giachetti chiede al ministro della Giustizia se sia a conoscenza della nota, se non ritenga che questa sia in contrasto con l'articolo 17 dell'ordinamento penitenziario, se non consideri preoccupante l'aspetto accentratore e se non ritenga necessario ritirarla o riformularla “secondo i principi che ispirano la normativa in vigore”. Domande che pongono una questione più ampia: quale carcere vogliamo? Un carcere che si limita a custodire i corpi o un carcere che prova a costruire percorsi di cambiamento?

Il Coordinamento dei magistrati di sorveglianza auspica “un'interlocuzione con il Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria, che possa riportare nell'alveo del ragionevole bilanciamento tra sicurezza e risocializzazione lo svolgimento delle attività trattamentali”. È un appello al dialogo, alla ricerca di un equilibrio. Ma è anche l'ammissione che quell'equilibrio, in questo momento, si è rotto. E che il rischio concreto è quello di un carcere sempre più vuoto di senso, sempre più lontano dai principi costituzionali, sempre più incapace di svolgere quella funzione rieducativa che non è un optional ma un dovere imposto dall'articolo 27 della Costituzione.

La palla ora passa al Ministero. Ma intanto, dentro le celle, qualcuno sta già calcolando quante attività, quanti laboratori, quanti spiragli di speranza andranno perduti per colpa di una circolare che nessuno, tra chi lavora davvero nel carcere, sembra aver chiesto.