Mancanza di acqua calda, docce rotte, muffa sulle pareti, infiltrazioni d’acqua dalle finestre, assenza di riscaldamenti, campanelli d’emergenza disattivati. Sono quarantatré le criticità specifiche documentate in una lettera collettiva firmata da 135 detenuti del quarto piano del primo blocco della Casa di Reclusione di Milano Opera. La loro denuncia ha innescato delle iniziative: prima la Procura della Repubblica di Milano, dove l’Associazione “Quei Bravi Ragazzi Family – ONLUS” ha presentato un esposto, poi il Parlamento.

Lunedì 27 ottobre la deputata del Pd Silvia Roggiani e altri sette colleghi hanno sottoscritto un’interrogazione al ministro della Giustizia. Nel testo della lettera, i detenuti descrivono il campanello d’emergenza disattivato con una frase che racchiude tutto: «Chi si ammala, spesso deve bussare e urlare per chiedere aiuto». Quel campanello non è un lusso. Quando non funziona, la dignità cessa di essere una questione di principio e diventa pura sopravvivenza.

L’ INTERROGAZIONE PARLAMENTARE

L’interrogazione a risposta scritta depositata presso la Camera dei Deputati nella seduta di lunedì scorso non usa mezzi termini. La sottoscrivono, oltre a Roggiani, i deputati Cuperlo, Evi, Forattini, Girelli, Guerini, Mauri e Quartapelle. E il loro linguaggio è quello di chi ha rinunciato alla diplomazia. «Presso la casa di reclusione di Milano Opera, i detenuti delle sezioni A, B e C del quarto piano del primo blocco hanno presentato un’istanza di reclamo ai sensi dell’articolo 35 dell’ordinamento penitenziario, rappresentando una serie di condizioni di grave disagio e deterioramento della qualità della vita detentiva». Non è un’accusa. È la trascrizione burocratica di un atto di dolore.

Le criticità enumerate nel testo parlamentare sono una fedele trasposizione di quello che i 135 detenuti denunciavano: «la mancanza di acqua calda e condizioni di deterioramento nei locali doccia; infiltrazioni d’acqua dalle finestre delle camere in caso di pioggia; insufficiente illuminazione artificiale dovuta a lampadine inadeguate; la disattivazione del campanello di emergenza nelle camere, con conseguente impossibilità di richiedere soccorso tempestivo in caso di malore; la carenza costante di personale sanitario e la discontinuità nella somministrazione delle terapie; la difficoltà per i detenuti delle sezioni interessate di accedere a colloqui con i propri legali, alla biblioteca, alla scuola e alle attività lavorative; tempi di attesa eccessivamente lunghi per i colloqui con i familiari; la mancanza o l’irregolarità nella fornitura di beni essenziali per l’igiene personale; limitazioni nell’acquisto di riviste, libri e beni di consumo; la palestra inutilizzabile a causa del degrado strutturale; le pessime condizioni delle camere detentive; il malfunzionamento della linea telefonica interna e delle cabine telefoniche nelle sezioni».

L’interrogazione non limita l’analisi alla gestione ordinaria. Solleva la questione costituzionale in termini espliciti: «Tali condizioni si pongono in violazione dell’articolo 27, terzo comma e dell’articolo 32 della Costituzione». L’articolo 27, comma 3 stabilisce che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità». Quando lo Stato consente che i campanelli rimangono spenti, che l’acqua calda non scorre, che la muffa cresce sulle pareti e il personale sanitario è cronicamente assente, viola direttamente quella norma. L’articolo 32 garantisce il diritto alla salute. Ma come può esistere quando «la carenza costante di personale sanitario» trasforma il carcere in un ospedale senza medici e le condizioni strutturali - muffa, umidità, freddo - minacciano costantemente la salute?

I DIRITTI CHE SCOMPAIONO DIETRO LE SBARRE

C’è un secondo strato di violazioni che l’interrogazione parlamentare documenta con precisione: il carcere di Opera nega ai detenuti non solo le condizioni materiali minime, ma anche i diritti che dovrebbero essere inalienabili. «La difficoltà per i detenuti delle sezioni interessate di accedere a colloqui con i propri legali» rappresenta una violazione del diritto alla difesa. Non è una questione marginale di procedure: è la negazione di uno dei pilastri dello Stato di diritto. Quando un detenuto non può accedere agevolmente al suo avvocato, quello che viene compromesso non è solo il suo diritto individuale, ma la funzione stessa della giustizia penale.

Un processo non può essere equo se l’imputato non può difendersi efficacemente. E se il carcere rende impossibile quella difesa, allora è il carcere stesso a violare il principio costituzionale del diritto a un processo equo. «Tempi di attesa eccessivamente lunghi per i colloqui con i familiari» e il «malfunzionamento della linea telefonica interna e delle cabine telefoniche nelle sezioni» rappresentano un’altra mutilazione: quella del diritto ai legami familiari.

Questi non sono privilegi penitenziari. Sono gli ancoraggi che mantengono un uomo legato alla sua umanità quando lo Stato lo priva della libertà. Quando le telefonate diventano rare, quando i colloqui sono ritardati, quello che viene tolto è qualcosa di più della comunicazione: è la memoria della persona che sei fuori. E poi c’è l’istruzione. La «totale assenza di attività scolastiche, culturali e lavorative» rappresenta un abbandono ancora più radicale. Lo Stato privando un uomo della libertà gli sta dicendo: non solo non sei libero, ma nemmeno puoi crescere, imparare, trasformarti. È una negazione della stessa possibilità di redenzione che la pena moderna dovrebbe consentire.

L’Associazione “Quei Bravi Ragazzi Family – ONLUS”, con la presidente Nadia Di Rocco, la vice presidente avvocato Guendalina Chiesi e gli avvocati Fabio Costa e Simona Patrone, non si è limitata a fare da megafono ai 135 detenuti. Ha presentato un esposto alla Procura di Milano chiedendo «l’apertura immediata di un’indagine penale su eventuali omissioni e responsabilità». Non è retorica. Quando le condizioni sono queste, non si parla solo di negligenza amministrativa. L’Associazione richiede anche l’invio urgente di una commissione ispettiva esterna con la presenza dell’ASL per le questioni sanitarie, il NAS (Nuclei Antisofisticazioni e Sanità dell’Arma dei Carabinieri) per le questioni igienico- sanitarie e di sicurezza alimentare, il Garante nazionale dei detenuti per la tutela dei diritti fondamentali.

IN ATTESA DELLA RISPOSTA DEL MINISTRO

L’interrogazione pone due domande concrete al guardasigilli: se abbia già disposto verifiche sulla situazione e «quali iniziative urgenti intenda adottare per ripristinare condizioni di vita conformi ai princìpi costituzionali e al diritto sovranazionale, garantendo l’accesso ai servizi essenziali e la tutela della salute dei detenuti», se ritenga opportuno «promuovere interventi straordinari di manutenzione e di potenziamento dei servizi interni della struttura, anche attraverso un monitoraggio costante delle condizioni igienico- sanitarie».

Non sono interrogative retoriche. Pretendono risposte concrete: tempistiche, finanziamenti, azioni verificabili. L’interrogazione ricorda che «la Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte richiamato gli Stati membri al rispetto degli standard minimi di vivibilità» e che «l’Italia ha già subito condanne in materia di condizioni detentive».

Quello che emerge dalla lettera dei 135 detenuti, dall’esposto e dall’interrogazione parlamentare è un quadro di assenza istituzionale. Il campanello disattivato non è un dettaglio tecnico: è il simbolo di un’istituzione che ha rinunciato al suo compito fondamentale — proteggere coloro che controlla, anche quando li punisce. La parola ora passa al ministro della Giustizia.