Nel terremoto giudiziario che continua a scuotere il carcere minorile Cesare Beccaria di Milano, spunta una notizia che sorprende e toglie il fiato: don Gino Rigoldi e don Claudio Burgio, gli ex cappellani dell'istituto, risultano indagati nell'inchiesta della procura. Per loro l'accusa è di omessa denuncia. Sarebbero stati consapevoli delle violenze ai danni dei giovani detenuti, eppure non le avrebbero comunicate alle autorità. Parliamo di ragazzi pestaggi quasi a sangue. «L’abbiamo ucciso, massacrato proprio», dialoghi riportati nelle intercettazioni di alcuni agenti della polizia penitenziaria.

Rigoldi in particolare aveva passato mezzo secolo dentro quelle mura, 52 anni come cappellano dell'Istituto penale minorile Beccaria dal 1972 fino al marzo di quest'anno. Non era una figura secondaria nelle cronache carcerarie milanesi: rappresentava invece l'immagine pubblica del riscatto, della speranza e del recupero. Nato nel 1939 nel quartiere di Crescenzago a Milano, Rigoldi ha lavorato come operaio prima di entrare in seminario all'arcivescovile di Venegono. Ordinato sacerdote nel 1967, nel 1972 chiese e ottenne di diventare cappellano del Beccaria. Quella che molti avrebbero considerato una missione temporanea divenne la sua vita intera.

Nel corso dei decenni don Gino costruì una reputazione particolare dichiarando di non aver mai avuto «l'allergia per il giudizio», convinto che quando si ascolta qualcuno bisogna «capire cosa gli è successo» piuttosto che condannare. La sua filosofia pastorale non si fermava alle messe domenicali e alle confessioni: iniziò a ospitare in casa propria i ragazzi che uscivano dal carcere senza un posto dove andare, un gesto spontaneo che lo rese visibile come uomo di fatti, non solo di parole.

Nel corso degli anni 70 e 80, quando i giovani detenuti erano ancora principalmente italiani provenienti dal Sud, Rigoldi vide evolversi la composizione della popolazione carceraria: oggi il 90% è di origine araba. Proprio sulla base di questo cambiamento, don Gino sosteneva che educatori e istituzioni avrebbero dovuto «andare verso di loro e capire di cosa hanno bisogno», incluso permettere loro di pregare nei loro riti, ritenendo che «quando pregano si tranquillizzano, cambiano proprio».

I PROGETTI E I NUOVI IMPEGNI

La sua visibilità pubblica crebbe negli anni. Ha ricevuto l'onorificenza di cittadino benemerito del Comune di Milano e di Cavaliere della Repubblica. Nel 2014 ha commentato il vangelo su Rai 1 nel programma “A Sua immagine” accanto ad altri preti di strada come don Luigi Ciotti fondatore di Libera. Nel marzo del 2024, Rigoldi ha rassegnato le sue dimissioni formali da cappellano, divenendo cappellano emerito, ma ha subito sottolineato «Ma non mollo il colpo». A succedergli nel ruolo è stato don Claudio Burgio, fondatore e presidente dell'associazione Kayròs, che lo aveva affiancato da 19 anni nel servizio pastorale.

A settantotto anni compiuti, Rigoldi ha lanciato l'idea di una comunità da realizzare da zero, un modello innovativo in cui accogliere i ragazzi che, dopo il compimento della maggiore età, si troverebbero isolati, spesso assegnatari di alloggi singoli. Ha visto in Francia il modello delle “jeunes maisons”: case che ospitano 15- 20 ragazzi e ragazze provenienti da comunità o senza casa, dove c'è un educatore e dove fanno tante attività culturali. Proprio alla luce di questo progetto, Rigoldi ha proposto con la Fondazione Don Gino Rigoldi di partecipare al bando comunale “Case ai lavoratori” che avrebbe permesso di ristrutturare degli alloggi e realizzare cento appartamenti. Aveva inoltre lanciato “Cambio Rotta”, un programma di raccolta fondi attraverso aste fotografiche di beneficenza per supportare attività a favore dei ragazzi dell'area penale del Beccaria.

Nel giugno del 2024 ha inaugurato un'iniziativa del tutto nuova: aperture domenicali della chiesa del Beccaria alla cittadinanza, invitando i milanesi a partecipare a messe in cui potessero incontrare i giovani detenuti e abbattere stereotipi.

Tutto questo fa della notizia dell'indagine, una vera e propria doccia fredda. Nel registro dei 51 indagati per le torture al Beccaria, quello di Rigoldi rappresenta forse il punto di massima contraddizione tra ciò che ha professato con passione e l'accusa contenuta negli atti. Ma indagato non vuol dire essere colpevole, e dovrà essere la procura a dimostrare se effettivamente ha omesso di denunciare. Di certo, da quello che era emerso dalle indagini, i ragazzi urlavano dal dolore per le botte ricevute. Non solo non ricevevano aiuto, ma rimanevano senza cibo e acqua.

LA LISTA DEGLI INDAGATI SI ALLUNGA

A questo ampliamento dell'inchiesta si arriva dopo gli arresti dell’anno scorso, quando il primo scossone aveva portato in manette 13 agenti della polizia penitenziaria con altre otto sospensioni dal servizio. Gli agenti risultavano accusati di maltrattamenti aggravati, tortura, lesioni e, per uno di loro, tentata violenza sessuale a danno di una dozzina di ragazzini a partire dal 2022. Tra i 51 nomi compaiono anche le ex direttrici Cosima Buccoliero e Maria Vittoria Menenti. A loro la procura contesta il concorso in maltrattamenti per non aver esercitato i poteri di controllo e vigilanza loro affidati, omettendo di fermare “le condotte reiterate violente e umilianti” perpetrate dagli agenti della polizia penitenziaria. Gli altri indagati sono membri della polizia penitenziaria e personale sanitario. Tra questi figurano anche tre operatori sanitari accusati di aver redatto “referti falsi o concordati con gli agenti” per nascondere le lesioni riportate dai ragazzi. Sarebbero stati inoltre presenti durante alcune aggressioni senza intervenire o segnalare l'accaduto.

I pestaggi e le violenze, secondo le ricostruzioni della procura, avvenivano in un ufficio dell'istituto e poi, quando iniziarono i lavori di ristrutturazione, si trasferirono in altre celle. Proprio quelle celle che i ragazzi definivano “di isolamento”, prive di telecamere: il posto perfetto per restare impuniti. I giovani venivano ammanettati e colpiti con bastoni, sottoposti a pestaggi collettivi studiati per non lasciare segni visibili sul corpo.

Tra gli episodi più gravi agli atti: un ragazzo che aveva tentato il suicidio nel 2021, successivamente colpito con schiaffi al volto e calci alla pancia, poi rinchiuso in cella d'isolamento come punizione. Per dare struttura al processo che verrà, è stato fissato giovedì prossimo il maxi incidente probatorio richiesto dalla procura. Parliamo del meccanismo procedurale che serve a cristallizzare le testimonianze delle 33 presunte vittime. L'informativa della Squadra mobile conta 900 pagine di intercettazioni e acquisizioni di video sorveglianza interna all'istituto. L'inchiesta è stata sviluppata a partire dalle segnalazioni di chi stava vicino ai ragazzi. A contribuire alle indagini sono stati psicologhe dell'istituto, madri di ex detenuti e gli ex detenuti stessi che avevano bussato alla porta delle istituzioni per fermare quello che accadeva.

Nel marzo del 2024, nulla di questo era ancora esploso pubblicamente. L'esplosione è arrivata tre settimane dopo con gli arresti di aprile: 13 agenti finiti in manette e otto sospesi. Mesi dopo, ad agosto, la procura ha depositato la richiesta formale di incidente probatorio e la lista degli indagati si è rivelata molto più lunga di quanto immaginato. Dai 42 di agosto ai 51 di oggi, una scoperta progressiva di responsabilità lungo tutta la catena di comando e di gestione dell'istituto. Il 30 ottobre segnerà un nuovo capitolo. Quello in cui i 33 ragazzi avranno il primo spazio strutturato e formale per raccontare quello che gli è stato fatto.