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Mentre il sovraffollamento non cala e i suicidi continuano - siamo alla 68esima persona ristretta che si toglie la vita, mentre muore un detenuto di 265 chili in attesa di un letto adeguato - c'è un passaggio della nota che il Capo del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria ha inviato la scorsa settimana ai direttori degli istituti che rivela, più di ogni statistica, lo stato di sofferenza del sistema carcerario italiano. È quando emerge che “non è ulteriormente tollerabile che il personale di Polizia addetto alla vigilanza diventi il prevalente presidio di contenimento di problematiche che traggono origine da ritardi nell'erogazione dei servizi, da mancate comunicazioni, da difetti di coordinamento”. Tradotto: le aggressioni quotidiane agli agenti, i danneggiamenti, le rivolte sono colpa di disfunzioni organizzative. E chi deve risolverle? Gli stessi direttori e funzionari che operano in emergenza permanente, con organici decimati e istituti che ospitano il doppio dei detenuti previsti.
La nota GDAP n. 0435332. U – trasmessa per conoscenza anche alle organizzazioni sindacali e firmata dal vertice del Dap – è un documento denso, che nelle sue cinque pagine offre un'analisi lucida delle criticità del sistema penitenziario italiano. Ma è anche un testo che rivela, tra le righe, una contraddizione stridente: chiede più presenza, più efficienza, più coordinamento a un personale che già lavora oltre ogni limite sostenibile. E lo fa in un contesto – quello del sovraffollamento cronico – che viene citato quasi en passant, come una variabile esogena da “attenuare” con la buona volontà operativa.
QUANDO LA TEORIA SI SCONTRA CON LA REALTÀ
Il cuore della direttiva è chiaro: ogni inefficienza organizzativa – un ritardo nella consegna degli effetti personali, un'incertezza nell'organizzazione di colloqui, una lentezza nella gestione sanitaria – diventa “terreno fertile per malcontento e conflittualità”. Da qui l'insistenza sull'accoglienza come momento cruciale. «L'ingresso in istituto rappresenta un momento ad altissima criticità, nel quale si gioca la prima percezione del detenuto rispetto al contesto in cui vivrà», si legge nel documento.
L'obiettivo dichiarato è nobile: trasformare l'accoglienza da «routine priva di attenzione» a «processo dinamico, concreto e continuativo». Si chiede all'Ufficio matricola e alla Sorveglianza Generale di «garantire fin dal primo contatto una sistemazione alloggiativa appropriata e la tempestiva attivazione delle misure organizzative necessarie». Ed è proprio qui, su questa richiesta di “sistemazione alloggiativa appropriata”, che la direttiva del Dap si scontra con una realtà che rasenta il grottesco. Perché come si garantisce una sistemazione “appropriata” quando gli istituti penitenziari presentano oramai un sovraffollamento che si attesta al 135 percento?
Come si offre un'accoglienza dignitosa quando i nuovi giunti vengono sistemati in celle già oltre ogni limite, quando mancano i materassi, quando gli spazi vitali si misurano in decimetri quadrati anziché in metri? Il funzionario dell'Ufficio matricola che legge questa direttiva e poi guarda le celle sovraffollate del suo istituto deve provare un senso di straniamento totale. Gli si chiede di garantire “fin dal primo contatto” una sistemazione appropriata in un luogo dove l'appropriatezza è ormai un lusso impossibile, dove la dignità abitativa è stata sacrificata sull'altare di politiche penali sempre più repressive e mai compensate da investimenti strutturali.
Si chiede inoltre che «il funzionario giuridico- pedagogico deve incontrare il detenuto nell'immediatezza, non limitandosi a raccogliere dati burocratici, ma svolgendo un'azione di osservazione diretta». L'immagine è suggestiva: il funzionario che si prende il tempo per conoscere davvero il nuovo arrivato, che ne intercetta «bisogni, fragilità e potenziali fattori di rischio». Ma quanti sono questi funzionari? Con quale rapporto rispetto alla popolazione detenuta? E con quale tempo materiale, se devono anche garantire – come richiesto dalla stessa nota – «una presenza costante nelle sezioni detentive, a stretto contatto con la popolazione detenuta»?
SANITÀ PENITENZIARIA: QUANDO IL RISPARMIO SI TRAVESTE DA EFFICIENZA
Un capitolo particolarmente delicato della direttiva riguarda la gestione sanitaria, definita «uno dei fronti più sensibili e delicati, spesso fonte di tensioni che sfociano in eventi critici». Il tono qui si fa ancora più prescrittivo: «È indispensabile che il ricorso ai trasferimenti esterni venga circoscritto ai soli casi indifferibili e documentati da certificazioni puntuali». Si denuncia la frequenza dei «cosiddetti pendolarismi ospedalieri per urgenze differibili, che generano disagio, costi e rischi di sicurezza». E si chiede al medico penitenziario di «assumersi la responsabilità di una valutazione rigorosa, contattando direttamente il 118 solo nei casi di effettivo pericolo di vita». Qui il documento tocca un nervo scoperto e lo fa con una formulazione che oscilla pericolosamente tra razionalizzazione necessaria e compressione del diritto alla salute. Da un lato è vero che alcuni trasferimenti ospedalieri potrebbero essere evitati con una maggiore efficienza dell'assistenza interna. Dall'altro, però, la richiesta suona come un invito a stringere i cordoni della borsa sanitaria in un contesto – quello penitenziario – già pesantemente deficitario.
Come si concilia la richiesta di «valorizzare le risorse interne» con la cronica carenza di personale medico? Il medico penitenziario che deve decidere se chiamare o meno il 118 si trova ora investito di una responsabilità ancora maggiore: non solo deve valutare la gravità clinica, ma deve anche chiedersi se sta contribuendo a quei «pendolarismi ospedalieri» che il Dap considera eccessivi. È una pressione psicologica non da poco, che rischia di tradursi – nei fatti – in una maggiore reticenza nel ricorrere a strutture esterne, con tutto ciò che questo può comportare per la salute dei detenuti.
NESSUNA POLITICA DEFLATTIVA CONTRO IL SOVRAFFOLLAMENTO
Ed eccolo, finalmente, il tema del sovraffollamento. Compare nel documento, introdotto quasi timidamente: «Il sovraffollamento costituisce un fattore moltiplicatore di tensioni, che rende complessa la gestione della quotidianità detentiva». Si ammette dunque l'evidenza: il sovraffollamento esiste, è un problema, complica tutto. Ma la soluzione proposta è disarmante nella sua insufficienza: «In simili condizioni, diventa ancora più urgente che tutti gli operatori – giuridico-pedagogici, sanitari, amministrativi – condividano il lavoro con la Polizia penitenziaria rendendosi disponibili in modo visibile e fattivo facendosi carico di colloqui diffusi e spiegazioni dirette».
In altre parole: siccome c'è il sovraffollamento, dovete lavorare ancora di più e meglio. Non una parola su come ridurre il sovraffollamento. Non un accenno a politiche di deflazione carceraria, a maggiore ricorso alle misure alternative, a un ripensamento delle politiche penali che continuano ad alimentare la popolazione carceraria. Il sovraffollamento viene trattato come una costante immutabile, una sorta di calamità naturale alla quale adattarsi con maggiore efficienza organizzativa, come se fosse un evento meteorologico avverso e non il prodotto di precise scelte politiche e legislative.
La direttiva del Dap ha il merito di nominare i problemi, di chiamare tutti – non solo la Polizia Penitenziaria – a farsi carico della gestione detentiva. Ha il pregio di riconoscere che «sicurezza e trattamento non sono due binari paralleli, ma due dimensioni inscindibili della vita penitenziaria». Ma ha anche il limite, gravissimo, di scaricare sulle periferie del sistema - direttori, funzionari, operatori - la responsabilità di risolvere con maggiore efficienza problemi che hanno radici strutturali e politiche.