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Rivolta e tentativi di evasione al carcere minorile Beccaria di Via Calchi Taeggi - Milano, Italia - Sabato, 31 Agosto 2024 (foto Stefano Porta / LaPresse) Riot and escape attempts at the Beccaria juvenile prison in Via Calchi Taeggi - Milano, Italia - Milan, Italy - Saturday, 31 august 2024 (photo Stefano Porta / LaPresse)
Quando l'allora ministro della Giustizia Andrea Orlando propose la sacrosanta ma naufragata riforma del sistema penitenziario, Il Fatto Quotidiano titolò: “Spacciatori in libertà!”. Non solo. Più di recente, di fronte all'intenzione dell'attuale ministro Nordio di limitare la carcerazione preventiva, lo stesso giornale ha denunciato un presunto tentativo di “salvare i colletti bianchi indagati”. Questa retorica – secondo cui i colletti bianchi non finirebbero mai in carcere – finisce paradossalmente per danneggiare tutti gli altri, impedendo qualsiasi riforma seria del sistema.
In sintesi: a destra domina il populismo penale, a sinistra quello giudiziario, che ha sostituito la “lotta di classe” con la “lotta penale”. Ed ecco che Il Fatto Quotidiano, in prima pagina, parla di libertà non solo per i colletti bianchi, ma anche per i presunti delinquenti comuni. Praticamente condensa il peggio di entrambe le derive. C'è qualcosa di profondamente disturbante in questa contraddizione permanente, in questa narrazione che emerge ogni volta che si parla di riforma della custodia cautelare.
L’articolo di ieri rappresenta l'ennesimo esempio di quella che potremmo definire “demagogia giustizialista”, capace di trasformare un tentativo di riequilibrio costituzionale in un presunto “salvacondotto per i corrotti”. La retorica è sempre la stessa: si agitano gli spettri dei colletti bianchi, si evocano casi di corruzione, si grida allo scandalo. Ma dietro questa cortina fumogena si nasconde una realtà che i numeri raccontano in modo implacabile e che certi commentatori preferiscono ignorare.
Partiamo dai dati, quelli veri, non dalle suggestioni. Secondo l'ultima Relazione annuale del ministero della Giustizia, nel 2024 una misura cautelare su quattro è stata quella carceraria. Questi numeri mostrano un aumento netto dell'uso delle misure coercitive e una quota non trascurabile di provvedimenti che non sfociano in condanna definitiva, elementi che meritano approfondimento. La custodia cautelare in carcere dovrebbe essere, per previsione costituzionale e normativa, una extrema ratio. L'articolo 275 del codice di procedura penale è cristallino: “la custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata”.
Eppure, come dimostrano i dati, questa “ultima trincea” è diventata uno strumento ordinario, utilizzato con una disinvoltura che stride con i principi fondamentali del nostro ordinamento. Il Gip utilizza la misura carceraria nel 34,3% dei casi, quasi il doppio rispetto al giudice dibattimentale (18,4%). Questo dovrebbe far riflettere sulla fase in cui viene realmente “deciso” il processo: non nel dibattimento, dove si forma la prova nel contraddittorio, ma nelle indagini preliminari. La realtà che emerge è quella di un Paese che detiene in custodia cautelare il 31,5% della popolazione carceraria totale, contro una media europea inferiore al 25%. Un Paese dove i detenuti in stato di custodia cautelare rimangono mediamente oltre sei mesi in carcere, superati solo da Slovenia, Ungheria, Grecia e Portogallo.
La Corte di Strasburgo, nella sentenza Torregiani, si è dimostrata “particolarmente sorpresa” nel constatare che circa il 40% dei soggetti ristretti in carcere risultava imputato, e fra questi circa il 20% era in attesa del giudizio di primo grado. Questo non è un sistema giudiziario efficiente: è un sistema che usa il carcere preventivo come anticipazione della pena.
Ciò che la retorica giustizialista non racconta mai sono le conseguenze irreversibili di una custodia cautelare ingiusta. La perdita del lavoro, la disgregazione familiare, l'annientamento delle relazioni sociali, il crollo psicologico. L'imputato, ristretto in custodia cautelare, perde il proprio ruolo sociale, la propria identità, i propri beni materiali. Tutto questo prima ancora di essere giudicato colpevole. E quando arriva l'assoluzione? Lo Stato pagherà, ma non sempre, un indennizzo.
Certo, ma chi potrà mai risarcire il tempo perduto, la reputazione distrutta, gli affetti compromessi? La questione di fondo è semplice: vogliamo continuare a essere un Paese dove si rinchiude prima e si giudica poi, dove il processo si decide in fase cautelare, dove l'innocente deve dimostrare di non essere colpevole? Le raccomandazioni del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa sono chiare: la custodia preventiva "deve essere l'eccezione, non la regola", "mai usata a scopo punitivo". Il Parlamento europeo ha constatato che in alcuni Stati membri, tra cui l'Italia, "la popolazione carceraria è composta per gran parte da detenuti in attesa di giudizio".
Non sono opinioni: sono fatti. Dati. Numeri che raccontano un sistema malato, dove la presunzione di colpevolezza ha sostituito quella di innocenza. Sia chiaro: tale eventuale legge non inciderà per niente sul discorso del grave sovraffollamento penitenziario e tutte le gravi criticità che vi comportano. Con la morte avvenuta ad Ariano Irpino, siamo giunti al 68esimo suicidio in carcere.
La proposta di limitare la custodia cautelare in carcere è un tentativo di riportare lo strumento alla sua funzione originaria: tutelare esigenze cautelari concrete (inquinamento prove, fuga, reiterazione), non soddisfare appetiti punitivi preventivi. Certo, resteranno gli arresti domiciliari e le altre misure. Ma anche qui si chiede di intervenire con criterio, richiedendo al PM di motivare il rischio di reiterazione con "comportamenti o atti concreti diversi" dal fatto contestato. Non si potrà più rinchiudere qualcuno "soltanto" perché sospettato di un reato: serviranno elementi ulteriori.
L'eventuale testo che verrà presentato potrà essere migliorato, discusso, emendato. Ma va nella direzione giusta: quella di restituire alla custodia cautelare il suo carattere eccezionale, di riportare al centro il principio di non colpevolezza, di evitare che altri innocenti finiscano in carcere preventivo. Eppure si preferisce la retorica facile, quella che agita lo spettro dei corrotti o degli spacciatori liberi. Ma i numeri parlano chiaro: il vero scandalo non sono i colpevoli che potrebbero evitare il carcere preventivo. Come scriveva Francesco Carrara, padre del diritto penale italiano: "La libertà deve essere la regola, il carcere l'eccezione". Forse è arrivato il momento di ricordarcelo.