PHOTO
SAMULE CIAMBRIELLO PORTAVOCE CONFERENZA NAZIONALE GARANTI TERRITORIALI DELLE PERSONE PRIVATE DELLA LIBERTA'
Nella notte tra il 19 e il 20 ottobre, nel carcere di Ariano Irpino (Avellino), è avvenuta un’altra tragedia. Si chiamava Joseph Luki: cittadino nigeriano, circa quarant’anni, padre di due bambini piccoli. È stato trovato privo di vita nella sua cella. Le prime indagini parlano di suicidio, la salma è stata trasferita all’ospedale “Ospedale San Pio” di Benevento per l’autopsia, disposta dalla Procura della Repubblica di Benevento.
Un nome in più in un elenco che non accenna a fermarsi: da inizio anno le morti per suicidio nelle carceri italiane raggiungono le 68, con quest’ultima registrata in Campania, la regione che segna il sesto caso di questo tipo nel 2025.
Quando si parla di suicidi dietro le sbarre, non si tratta solo di numeri ma di vite che si sgretolano in spazi dove l’abbandono e la paura sembrano dilatarsi. Per Joseph Luki, come per tanti altri, la detenzione non ha significato soltanto scontare una pena, ma trovarsi intrappolato in condizioni che – secondo chi le osserva da vicino – trascendono l’oppressione carceraria per diventare un sistema che macina umanità.
Il Garante delle persone private della libertà della Campania, attraverso la voce del Garante Samuele Ciambriello, ha giudicato la vicenda non come «un caso isolato», ma come l’indicatore di un’emergenza che «sembra non arrestarsi», persa nell’indifferenza della politica e della società. Ciambriello ha fatto riferimento al richiamo del Presidente della Repubblica, che aveva invocato il rispetto della dignità di ogni persona, anche di chi è detenuto. Ha ribadito: «L’alto indice di suicidi è la prova di condizioni inammissibili, tra cui quelle del sovraffollamento».
Ecco lo scenario dietro alla dichiarazione: a fine settembre la popolazione detenuta in Italia era di 63.198 persone, quando la capienza regolamentare ammontava a 51.275 posti — e ciò senza considerare i circa 4.760 posti non disponibili. Il sovraffollamento reale oltrepassa quindi il 120%, e in alcune strutture arriva anche oltre il 150%. In questo contesto, le celle pensate per due persone ne ospitano quattro o più. Gli spazi sono angusti: in molti istituti non sono garantiti neppure tre metri quadrati per detenuto. Mancano spesso i servizi essenziali, l’assistenza psicologica è ridotta all’osso, e chi arriva sprovvisto di lingua o rete di supporto – come un migrante – resta isolato.
Le ragioni di questa escalation sono molteplici e intrecciano aspetto strutturale e umano. Il sovraffollamento non è solo un problema logistico: amplifica il senso di claustrofobia, riduce le possibilità di socializzazione e sostegno psicologico, rende più difficile per il detenuto mantenere un legame con l’esterno — famiglia, figli, comunità. In queste condizioni, la sofferenza mentale cresce sotto silenzio, e in molti casi arriva all’atto estremo della fine della propria vita. La storia di Joseph Luki s’inserisce in questo scenario. Non era solo un detenuto: era un marito, un padre. Il carcere doveva rappresentare una parentesi nella sua esistenza, una separazione temporanea dalla libertà, ma non per questo dalla dignità. Invece, la sua morte testimonia come, anche in uno Stato di diritto, la pena detentiva possa trasformarsi in un dispositivo di esclusione anziché di recupero. Il Garante Ciambriello non cerca solo un richiamo morale: chiede interventi concreti. Aumentare il numero di educatori, psicologi, mediatori linguistici; espandere — davvero — le misure alternative al carcere; non puntare unicamente alla costruzione di nuovi edifici, ma investire sulle persone, sulle relazioni, sull’umanità che in carcere si frantuma giorno dopo giorno.