«La salute mentale in carcere è trattata come un problema di ordine pubblico ». Quindici mesi di indagine in tre istituti penitenziari rivela una “babele di definizioni” che impedisce di conoscere i veri numeri del disagio. «Salute mentale e carcere è già un po’ un ossimoro». La frase, pronunciata da uno psichiatra, riassume i quindici mesi di ricerca della Società della Ragione in tre istituti penitenziari – Prato, Udine e Rebibbia femminile – finanziata dall’Otto per Mille valdese e condotta con la collaborazione del Garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana. Il fine settimana scorso si è celebrata la giornata mondiale della salute mentale, e il modo migliore per celebrarlo è riportare i recenti risultati del progetto che mostrano un sistema che genera sofferenza e poi la contiene a colpi di psicofarmaci. Dove l’incompatibilità psichiatrica con il carcere, sancita dalla sentenza 99/2019 della Consulta, resta solo sulla carta.

I NUMERI CHE NON TORNANO

La prima scoperta riguarda i numeri, o meglio la loro assenza. Raccogliere dati sulla salute mentale in carcere si è rivelato un labirinto: criteri diversi per definire la “presa in carico”, schede compilate in modo disomogeneo, scarso coordinamento tra amministrazione penitenziaria, sanità e servizi territoriali. A Prato, su 649 detenuti, 53 risultano “in cura” e 26 hanno una doppia diagnosi di disturbo psichiatrico e tossicodipendenza. Ma cosa significano davvero questi numeri? A Udine, una “consulenza” è solo una valutazione occasionale; a Prato indica visite senza continuità. La “presa in carico” per alcuni è un percorso di cura, per altri la semplice presenza di psichiatra e psicologo. Una babele di definizioni che impedisce qualsiasi confronto reale. La ricerca conclude che «l’emergenza psichiatrica percepita è maggiore di quella effettiva»: non perché i problemi siano minori, ma perché il carcere stesso genera sofferenza che poi si traduce in diagnosi e farmaci.

Uno dei punti più critici riguarda l’uso esteso degli psicofarmaci. «Troppo spesso la salute mentale in carcere viene trattata come un problema di ordine pubblico», osserva un volontario. Il farmaco diventa così tutto: sedativo per chi non dorme, ansiolitico per chi non regge l’isolamento, merce di scambio nel mercato interno, o mezzo per stordirsi e non pensare. «Io ho molta ansia – racconta un operatore del SerD riferendo le parole dei detenuti – e chiedo un farmaco che mi tolga il sintomo, come fosse una tachipirina. In carcere la richiesta di psicofarmaci sintomatici è altissima». Gli psichiatri reagiscono in modo diverso: c’è chi prescrive di più, riconoscendo che la detenzione esaspera ogni disagio, e chi tenta un “patto terapeutico” per evitare che la cura diventi sedazione. Ma la contraddizione resta: come distinguere tra bisogno reale e uso improprio, quando è il carcere stesso a produrre il malessere?

L’INCOMPATIBILITÀ FANTASMA

La chiusura degli Opg nel 2015 avrebbe dovuto segnare una svolta: cura in luogo di detenzione, non più detenzione in luogo di cura. La realtà racconta un’altra storia. La sentenza 99/2019 della Corte costituzionale ha equiparato la malattia mentale a quella fisica per dichiarare l’incompatibilità con il regime detentivo. Sulla carta. Nella pratica, «l’incompatibilità viene dichiarata di solito per patologie gravi, organiche», spiegano gli operatori. Per i disturbi psichiatrici è «molto più raro».

Il paradosso emerge dalle interviste: «Io posso dirle che in una situazione ho visto che è stata fatta una perizia psichiatrica per valutare l’idoneità o meno della persona alla vita detentiva», racconta una psicologa. Ma sono eccezioni. La regola è che le persone con gravi disturbi psichiatrici restano in carcere, spesso in sezioni chiamate Atsm (Articolazioni per la tutela della salute mentale), definite da un garante «scatolette dentro lo scatolone ». Il nodo critico? Il sistema dei servizi esterni non è attrezzato ad accoglierli. «Dipende molto dalla disponibilità del territorio – spiega uno psichiatra –. Se uno non ha la residenza è difficile individuare il territorio competente, e soprattutto far sì che il territorio si senta competente». Un circolo vizioso in cui manca il provvedimento del giudice perché manca la struttura che accoglierebbe il detenuto, e manca la struttura perché manca il provvedimento.

La condizione diventa drammatica per i detenuti

stranieri senza permesso di soggiorno e residenza. «Quando non c’è residenza, se ne lavano tutti le mani», denuncia un garante. Il carcere si trasforma così in un Centro di Permanenza per il Rimpatrio di fatto: la persona resta detenuta perché priva degli strumenti burocratici – residenza, certificazioni sanitarie, documenti – che aprirebbero le porte verso percorsi alternativi. «Per le persone straniere, non regolari, il carcere assume i connotati di un centro per il rimpatrio», conclude la ricerca. L’intersezione tra problematiche di salute e carenze certificative genera «condizioni di totale mancanza di prospettive di tutela della salute fuori dal carcere».

LA PREVENZIONE DEL SUICIDIO

Nel 2024 ci sono stati 89 suicidi in carcere, a cui vanno aggiunti i 66 dell’anno in corso. La prevenzione del rischio suicidario oscilla tra protocolli standardizzati – come la Sad Persons Scale – e gestione emergenziale. «Purtroppo la carenza dei medici spesso determina che il detenuto non venga sempre visto nell’immediatezza», ammette un direttore. La sorveglianza diventa capillare, coinvolgendo psichiatri, psicologi, educatori, agenti di polizia penitenziaria e persino altri detenuti designati come “caregivers”. Ma i piani locali di prevenzione, nota la ricerca, si concentrano sui fattori di rischio individuali (età, precedenti tentativi, mancanza di supporto sociale) trascurando quelli ambientali: isolamento, sovraffollamento, condizioni igienico-sanitarie, mancanza di attività. «Non si può fare terapia in carcere – sintetizza una psicologa –. Puoi fare sostegno, supporto, contenimento. Molte volte l’aiuto psicologico passa anche attraverso cose molto concrete: riuscire a chiamare i propri cari, fare una domandina, orientarsi nelle regole».

Alla domanda finale – «Se avesse una bacchetta magica, cosa cambierebbe?» – le risposte degli operatori convergono su alcuni punti. Primo: ridurre drasticamente il sovraffollamento. Secondo: garantire attività lavorative e formative per tutto il giorno, perché «una persona che si sveglia alla mattina e non ha letteralmente niente da fare, è una condizione devastante». Terzo: aumentare le risorse umane, equiparando il personale educativo a quello di sorveglianza. Ma c’è anche chi va più a fondo: «Io credo che sia impossibile fare salute mentale in queste condizioni. È una condizione talmente patogena che non riesco a vedere grosse possibilità». Un’onestà intellettuale che spinge alcuni a proporre la chiusura dei grandi istituti: «Non credo nella possibilità del benessere psicofisico in istituti così mastodontici, dove la persona viene persa di vista. È un numero».

In questo quadro desolante, emerge un dato positivo: il ruolo fondamentale del volontariato e del terzo settore. «I volontari sono una grandissima risorsa – racconta una psicologa –. Quando non arriviamo noi possono arrivare loro. Il cappellano quando dei detenuti non hanno niente carica dei soldini sul conto. La Caritas può cercare di dargli il lavoro, portare nella sua comunità». Sono loro, spesso, a fare da ponte tra dentro e fuori, a occuparsi delle «cose molto concrete» che determinano la sopravvivenza in carcere: una telefonata ai familiari, vestiti, soldi per la spesa. Un welfare di prossimità che supplisce alle carenze istituzionali.

«La salute mentale è una declinazione imprescindibile della salute globale della persona», ricorda un operatore. Eppure in Italia persiste «uno stigma sul tema salute mentale». In carcere questo stigma si amplifica: i disturbi psichiatrici sono ancora visti come problema di ordine pubblico più che di cura. La ricerca della Società della Ragione – che proseguirà con presentazioni a Firenze il 28 ottobre e a Udine il 13 novembre – lancia un messaggio chiaro: dieci anni dopo la chiusura degli Opg, il sistema non ha fatto i conti con la salute mentale in carcere. Ha semplicemente trasferito il problema da un’istituzione all’altra, senza dotarsi degli strumenti necessari.