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Foto Piero Cruciatti / LaPresse 17-08-2015 Milano, Italia Cronaca Visita al carcere di San Vittore a Milano Nella Foto: Una cella del VI raggio del carcere di San Vittore Photo Piero Cruciatti / LaPresse 17-08-2015 Milano, Italy San Vittore prison in Milan News In the Photo: A cell in the VI wing of the San Vittore Prison
“Protezione non vuol dire esclusione”. Questa frase, pronunciata da una donna trans detenuta a Napoli Secondigliano, racchiude il paradosso che intrappola le persone LGBTIQ nelle carceri italiane. Quello che dovrebbe essere un sistema di tutela si traduce spesso in un isolamento forzato, una "gabbia nella gabbia" che aggrava la privazione della libertà.
È il dato più lampante emerso dal Rapporto nazionale di Antigone (nell'ambito del progetto europeo “Persone detenute LGBTIQ”), la prima indagine sistematica e aggiornata sulla condizione delle persone LGBTIQ private della libertà nel nostro sistema penitenziario. L'analisi si è basata su 39 interviste in tre istituti (Napoli Secondigliano, Napoli Poggioreale e Roma Rebibbia Nuovo Complesso) e un focus group di esperti. I numeri evidenziano un ritardo strutturale: l’Italia, secondo la Rainbow Map di ILGA-Europe, si posiziona al 35esimo posto su 49 paesi europei per i diritti LGBTIQ (con un punteggio del 24,41%, ben sotto la media Ue). Un contesto esterno di discriminazioni e mancata tutela (come il blocco del Ddl Zan) che, all'interno delle carceri, assume contorni ancora più drammatici.
La regola: sistema binario e separazione
Il sistema penitenziario resta strutturato su un modello binario di genere, interamente declinato al maschile. Le persone trans vengono assegnate agli istituti seguendo il criterio puramente biologico: le donne trans finiscono in carceri maschili, gli uomini trans in quelle femminili, indipendentemente dalla loro identità di genere, dal percorso di affermazione intrapreso, persino dalla rettifica anagrafica eventualmente ottenuta. L'unico elemento che conta è l'apparato genitale.
Ma c’è una differenza sostanziale nel trattamento. Mentre gli uomini trans vengono collocati nelle sezioni femminili ordinarie insieme al resto della popolazione detenuta – con tutto il disagio che questo comporta – le donne trans e gli uomini che dichiarano la propria omosessualità vengono separati dal resto dei detenuti e confinati in sezioni apposite. Un modello che sulla carta nasce da esigenze di protezione, ma che nella pratica genera spesso isolamento e marginalizzazione.
La riforma dell’ordinamento penitenziario del 2018 ha istituzionalizzato questo sistema, creando le cosiddette “sezioni protette omogenee”: oggi in Italia esistono sei sezioni per donne trans e tre sezioni per uomini omosessuali. A ottobre 2023 – gli ultimi dati disponibili – erano 70 le donne trans detenute nelle carceri italiane, di cui 64 nelle sezioni omogenee. Solo 66 uomini avevano formalmente dichiarato il proprio orientamento sessuale, metà nelle sezioni protette e metà ancora nelle vecchie “sezioni protette promiscue”, quelle dove finiscono mescolati sex offenders, collaboratori di giustizia e persone LGBTIQ. Nessun dato, invece, su donne lesbiche, uomini trans e persone non binarie: nell’universo femminile, dove non esistono sezioni apposite, l'amministrazione penitenziaria non prevede alcuna registrazione.
«a Secondigliano stiamo nel Medioevo»
La separazione, nata per tutelare, si traduce in esclusione drastica. La sezione per donne trans a Napoli Secondigliano ne è l’esempio più lampante: strutturalmente isolata, offre opportunità ridotte al minimo – un solo corso scolastico, niente accesso alla biblioteca o a una vera palestra. «Qua stiamo nel Medioevo; per loro è impensabile mandarci a scuola con i maschi», ha raccontato una detenuta, cui è stata negata persino la messa domenicale per evitare contatti con gli uomini. Il risultato è un isolamento quasi totale.
A Rebibbia la situazione è diversa: la sezione trans si trova in un reparto più ampio e consente attività condivise con gli uomini (scuola, teatro, falegnameria). Nonostante ciò, la discriminazione persiste, in particolare nell'accesso agli spazi aperti: le donne trans sono spesso relegate in aree verdi separate, definite da una di loro “un buco nero fatto di cemento”.
Ancora più drammatica è la condizione degli uomini trans nelle sezioni femminili. Tutti gli intervistati al carcere di Secondigliano hanno espresso il desiderio di un trasferimento in una struttura maschile. Il disagio di vivere in un ambiente femminile è amplificato per chi ha un look maschile, in particolare per l'obbligo della doccia comune, vissuto con grande sofferenza.
Violenza, linguaggio e identità negata
La violenza in carcere inizia spesso con l’arma più sottile: il misgendering, ovvero l'uso sistematico di pronomi e termini che negano l’identità di genere. È una pratica diffusissima tra gli agenti. Un uomo trans ha raccontato la frustrazione: «La scusa è che il femminile esce automatico, ma sulla porta della mia cella c'è scritto il mio nome maschile». Altri hanno subito vere e proprie umiliazioni: «Nonostante il documento, per noi sei femmina. Solo perché hai la barba pensi di essere uomo?».
Come sottolinea un’attivista del MIT (Movimento Identità Trans), il nome viene usato come un “grimaldello” per negare il riconoscimento e affermare il potere. Ma la discriminazione non si ferma alle parole. Il 24 giugno scorso, una donna trans detenuta a Ferrara ha denunciato una violenza sessuale di gruppo. Trasferita precedentemente da una sezione omogenea (Reggio Emilia) a una protetta promiscua (Ferrara), la donna aveva già segnalato insulti e molestie. Nonostante i segnali di allarme, la lentezza della burocrazia penitenziaria non è riuscita a proteggerla, lasciando il sistema penitenziario drammaticamente esposto nella sua incapacità di garantire la sicurezza.
L'accesso all’assistenza sanitaria per le persone LGBTIQ è un’area critica. Nonostante la terapia ormonale sia formalmente inclusa nel Servizio Sanitario Nazionale, le testimonianze parlano di gravi ritardi e difficoltà. Gli uomini trans intervistati a Secondigliano, ad esempio, hanno confermato che “solo chi ha intrapreso il percorso fuori continua anche dentro il carcere”. L'accesso alle cure non è un diritto garantito.
Ancor più allarmante è l’uso massiccio di psicofarmaci, specialmente nella sezione di Secondigliano, che genera una vera e propria dipendenza. Una tendenza che conferma come il carcere stia utilizzando la somministrazione di farmaci non solo con finalità terapeutiche, ma sempre più come uno strumento di controllo disciplinare, sedando il disagio derivante dal profondo isolamento.
il reinserimento impossibile
La fragilità di questa popolazione – spesso immigrata, irregolare e sex worker – rende l’uscita dal carcere un incubo, più che una liberazione. Come spiega un’attivista, molte detenute trans ammettono che “all'interno ci si sente a volte più protette che fuori. Si esce ma dove si va? Quando non hai casa, quando non hai amici, quando non hai nulla”.
Questa precarietà è aggravata dalla totale mancanza di un sistema di supporto: il Garante di Roma conferma che l’accoglienza post-detenzione è quasi inesistente, con l’esclusione di fatto dalle case femminili e posti limitati nelle pochissime strutture dedicate. In questo scenario di abbandono, il ruolo della società civile è fondamentale, come dimostra l'esempio virtuoso dello sportello di supporto gestito da Arcigay Napoli.
Il Rapporto Antigone non si limita a fotografare le criticità, ma indica la strada per un cambiamento concreto. È fondamentale dare attuazione alla riforma del 2018, garantendo accesso effettivo ad attività e risorse, e superare il criterio di assegnazione basato solo sul sesso biologico, lasciando margini per valutazioni caso per caso. Il principio di individualizzazione del trattamento deve prevalere sulla standardizzazione. Infine, è necessaria una formazione specifica e obbligatoria per tutto il personale penitenziario, con il coinvolgimento diretto delle associazioni. Come sottolinea la sociologa Daniela Ronco, la battaglia per i diritti delle persone LGBTIQ in carcere non dovrebbe essere percepita come una questione di nicchia, ma come un'opportunità per elevare gli standard di tutela per tutte le soggettività ristrette.


