Le autorità competenti non hanno risposto. Dopo tre mesi dall’invio di una relazione dettagliata, circostanziata, corredata di dati e testimonianze, il Prefetto di Roma Lamberto Giannini e il Capo Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione Rosanna Rabuano non hanno fornito alcun riscontro alle osservazioni presentate dai garanti dei detenuti Valentina Calderone (Roma Capitale) e Stefano Anastasìa (Regione Lazio) sulla situazione del Centro di permanenza per i rimpatri di Gjadër, in Albania. Un silenzio che pesa come un macigno e che solleva interrogativi inquietanti sulla trasparenza e sulla volontà di confrontarsi con chi, per mandato istituzionale, ha il compito di vigilare sui diritti delle persone private della libertà.

La relazione, datata 3 ottobre 2025, è il frutto di una visita ispettiva condotta il 29 e 30 luglio scorsi presso la struttura albanese che, sulla carta, dovrebbe rappresentare una soluzione innovativa alla gestione dei flussi migratori. Sulla carta, appunto. Perché ciò che emerge dalla lettura della relazione dei garanti, è un quadro ben diverso: un centro costoso, sottoutilizzato, con criticità gravi che riguardano il rispetto dei diritti fondamentali delle persone ivi trattenute. 

Le fascette ai polsi e i viaggi della vergogna

Partiamo dai dati, che sono incontrovertibili e rendono plastica l’assurdità della situazione. Al momento della visita dei garanti, nel CPR di Gjadër erano presenti 27 persone. Ventisette. A fronte di una capienza di 144 posti regolamentari, con 96 posti contestualmente disponibili. Ventisette persone trasferite dall’Italia all’Albania, in una struttura che ha visto transitare, da aprile a luglio 2025, 140 persone di cui 113 già dimesse per i motivi più vari: 40 per mancata proroga del trattenimento, 37 rimpatriate, 15 per inidoneità sanitaria, 7 per riconoscimento della protezione internazionale.

E mentre a Gjadër i posti restano vuoti, i CPR italiani non soffrono di alcuna condizione di sovraffollamento. Lo scrivono nero su bianco i garanti: il trasferimento in Albania non trova alcuna giustificazione pratica. Se non quella, non detta ma evidente, di alimentare una narrazione politica. Ma a quale prezzo? «Ingente costo per il bilancio pubblico», complicazioni nelle comunicazioni, compromissione «in maniera rilevante» del diritto alla difesa. Quando la relazione entra nel merito delle condizioni di trasferimento, il quadro si fa ancora più inquietante. I garanti hanno ascoltato venti delle ventisette persone presenti. E tutte, senza eccezione, hanno raccontato la stessa storia: durante i lunghi trasferimenti in nave da Bari a Shëngjin, sono stati costretti a tenere i polsi legati con fascette di plastica. Per ore. Impedendo loro qualsiasi movimento.

Un trattamento che i garanti definiscono senza mezzi termini inaccettabile, richiamando quanto già censurato dal Garante nazionale. Le fascette ai polsi non sono una misura di sicurezza proporzionata, sono una pratica lesiva della dignità umana. Eppure, continua ad essere applicata sistematicamente.

Il diritto negato alla protezione internazionale 

Dalle testimonianze emerge un quadro allarmante: ritardi di settimane tra la richiesta e la formalizzazione del C3, quando per legge non dovrebbero trascorrere più di 48 ore. Con un numero così esiguo di persone, questi ritardi sono «particolarmente ingiustificati».

Ma c’è di più. Alcune persone hanno riferito di tentativi di dissuasione da parte di operatori dell’ufficio immigrazione, che avrebbero cercato di scoraggiarli dal presentare la domanda. Se confermato, sarebbe gravissimo: ostacolare l’esercizio del diritto di asilo è una violazione palese delle norme nazionali e internazionali. Eppure, su questo, le autorità non hanno fornito alcuna risposta. La distanza dalla terraferma crea problemi concreti. I trattenuti non hanno telefoni personali. L’ente gestore ha dichiarato l’intenzione di fornirne uno a ciascuno, ma si scontra con difficoltà: blackout elettrici frequenti, problemi di connessione. Il risultato è l’isolamento totale: incapaci di mantenere contatti con famiglie e legali.

E poi la questione sanitaria. Un trattenuto ha segnalato che i farmaci somministratigli in Albania dopo un intervento al collo subito in Italia sarebbero «diversi» e meno efficaci. Un altro, con difficoltà di deambulazione, ha raccontato che la sua stampella gli è stata tolta all’ingresso. Episodi che sollevano dubbi sulle «innegabili differenze tra il Sistema sanitario italiano e quello albanese».

C’è un passaggio della relazione che è allarmante. Le persone dimesse per incompatibilità con la vita ristretta vengono accompagnate al porto di Bari e lì «lasciate senza alcuna offerta di presa in carico». Persone fragili, con certificazione medica di inidoneità, vengono scaricate in porto e abbandonate a se stesse. E qui emerge un’altra contraddizione: alcune di queste persone, valutate come inidonee in Albania, una volta rientrate in Italia vengono nuovamente valutate come idonee e trattenute nei CPR italiani. Come è possibile? Chi sbaglia? I garanti chiedono di «indagare» su questa «scarsa perizia nelle valutazioni». Ma anche qui, silenzio assoluto.

La gabbia e il deserto 

La struttura si trova in un’area arida, senza vegetazione. Le aree comuni sono «sovrastate da reti metalliche che chiudono completamente i settori». L’aspetto, scrivono i garanti, è quello di«una vera e propria gabbia».

E in questa gabbia, nessuna opportunità di attività. Nessuno spazio per attività motorie o sportive. Nessuna attività ricreativa. Solo l’attesa, in un ambiente «brullo e isolato». I garanti raccomandano di rimuovere le reti metalliche, di organizzare attività, di piantare alberi. Raccomandazioni di buon senso, che richiamano standard minimi di umanità. Ma che non meritano nemmeno una risposta.

E poi c’è il caso dei cinque cittadini egiziani che, secondo notizie di stampa, il 9 maggio 2025 sarebbero stati rimpatriati a Il Cairo direttamente dall’aeroporto di Tirana. I garanti hanno chiesto chiarimenti. Gli interlocutori «non hanno smentito» ma non hanno fornito dettagli. Nella relazione c’è una richiesta esplicita di documentazione. Anche qui, nessuna risposta.

Il silenzio delle autorità potrebbe non essere una dimenticanza. Appare come una scelta precisa. Una scelta che tradisce la volontà di non confrontarsi con le criticità, di non rispondere alle domande scomode, di non prendere posizione su questioni che riguardano diritti fondamentali. I garanti sottolineano che «ogni visita rappresenta intrinsecamente un elemento di collaborazione con le Istituzioni competenti». Hanno svolto il loro mandato con scrupolo, raccolto dati, ascoltato testimonianze, formulato raccomandazioni puntuali. Hanno fatto la loro parte. Ma le autorità competenti hanno scelto il silenzio. Un silenzio che suona come un rifiuto del dialogo istituzionale, come un disconoscimento del ruolo dei garanti. Perché affrontare quelle criticità significherebbe ammettere che il CPR di Gjadër non funziona. Che è un progetto costoso e inefficace. Che le persone ivi trattenute sono esposte a trattamenti degradanti. La relazione è stata resa pubblica. Insieme al silenzio delle autorità. Un silenzio che potrebbe dire molto più di tante parole.