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LA SEDE DELLA CONSULTA
Una recente ordinanza del Tribunale di Milano, firmata dalla dottoressa Paola Ghinoy, ha il sapore di quelle decisioni che segnano uno spartiacque nella storia del diritto. Non tanto per la sua complessità tecnica, quanto per la cruda verità che mette a nudo: nel nostro Paese esistono persone che, pur essendo regolarmente autorizzate a soggiornare, non usufruiscono dell’assistenza sanitaria gratuita.
Sono gli stranieri con disabilità, titolari di permesso per “residenza elettiva”, che dal 2024 devono pagare 2mila euro l’anno per accedere al Servizio Sanitario Nazionale. La cifra non è casuale. È il risultato di una modifica legislativa che ha quintuplicato il contributo minimo richiesto, trasformando quello che era già un ostacolo in una vera e propria barriera invalicabile per chi sopravvive con una pensione di invalidità di poche migliaia di euro l’anno.
UNA DISCRIMINAZIONE “PERFETTA”
I protagonisti di questa vicenda sono due uomini, un cittadino egiziano e uno pakistano, entrambi divenuti disabili dopo aver lavorato regolarmente in Italia per anni. Il primo, affetto da sindrome schizoaffettiva e problematiche spinali, aveva lavorato dal 2003 al 2012 prima che la malattia lo rendesse totalmente inabile. Il secondo, pakistano, aveva un permesso per motivi umanitari dal 2009 e aveva lavorato fino al 2022, quando una lesione midollare lo ha reso paraplegico.
Entrambi avevano accesso gratuito al Servizio Sanitario Nazionale quando erano abili al lavoro. Entrambi lo hanno perso nel momento in cui ne avevano più bisogno: quando la disabilità li ha resi completamente dipendenti dalle cure mediche. Il meccanismo è diabolico nella sua perfezione: proprio la condizione che rende indispensabili le cure sanitarie è quella che ne impedisce l’accesso gratuito.
Come spiega chiaramente l’ordinanza, questi stranieri «non sono stati soggetti all’iscrizione obbligatoria nel 2024 proprio in conseguenza della loro sopravvenuta condizione di disabilità, avendo potuto invece godere dell’iscrizione obbligatoria in precedenza, nel periodo in cui, abili al lavoro, erano titolari di un permesso di soggiorno per lavoro» .
L’ESCLUSIONE CHE SFIDA LA LOGICA
L’articolo 34 del Testo Unico sull’Immigrazione disegna una mappa dell’accesso alle cure che sembra seguire una logica precisa, ma che alla prova dei fatti rivela contraddizioni profonde. L’iscrizione obbligatoria e gratuita spetta a chi ha permessi per lavoro, famiglia, protezione internazionale, cure mediche. Il permesso per “residenza elettiva”, invece, relega chi lo possiede nell’area dell’iscrizione volontaria a pagamento.
La ratio della distinzione dovrebbe essere chiara: l’iscrizione gratuita per chi ha un legame stabile con l’Italia (lavoratori, familiari) o particolari esigenze di tutela ( rifugiati, chi ha bisogno di cure). Ma cosa accade quando il permesso per residenza elettiva viene rilasciato proprio a chi aveva un permesso per lavoro o famiglia e lo ha dovuto convertire a causa della sopravvenuta disabilità? Si crea quello che il Tribunale definisce un “paradosso”: persone che hanno dimostrato il proprio radicamento sul territorio italiano, che hanno contribuito al sistema produttivo e fiscale, vengono private dell’accesso gratuito alle cure proprio quando ne hanno più bisogno. E questo non per una scelta del legislatore consapevole delle conseguenze, ma per l’applicazione meccanica di una norma che non considera le specificità della disabilità.
I numeri raccontano storie che le parole faticano a descrivere. Il cittadino egiziano ha un reddito annuo di 18.816 euro, principalmente dalla pensione di invalidità. Per lui, i 2mila euro di contributo rappresentano oltre il 10% del reddito totale. Il cittadino pakistano ha un reddito di 15.936 euro: per lui la percentuale sale al 12,5%.
Ma c’è un dettaglio che rende il quadro ancora più amaro. Se questi stessi cittadini fossero italiani, con lo stesso reddito da pensione di invalidità, non pagherebbero nulla per l’accesso al servizio sanitario. L’articolo 63 della legge 833/ 1978 prevede infatti l’esenzione dal contributo per chi non è tenuto alla presentazione della dichiarazione dei redditi, categoria che include i percettori di sole pensioni di invalidità. La discriminazione, dunque, non è solo tra stranieri regolari e irregolari, o tra stranieri con diversi titoli di soggiorno. È una discriminazione che si stratifica, creando gerarchie di accesso alle cure che hanno come unico discrimine la nazionalità. A parità di condizione economica e sanitaria, il cittadino italiano non paga nulla, lo straniero deve versare un terzo del proprio reddito.
IL DIRITTO ALLA SALUTE COME PRIVILEGIO DI CITTADINANZA
L’ordinanza del Tribunale di Milano tocca uno dei nodi più profondi del rapporto tra diritti fondamentali e cittadinanza. L’articolo 32 della Costituzione proclama che la Repubblica “tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo” e “garantisce cure gratuite agli indigenti”. Non parla di cittadini, ma di individui. Non distingue per nazionalità, ma solo per condizione economica. Eppure la legislazione ordinaria ha costruito un sistema in cui l’accesso gratuito alle cure dipende dal colore del passaporto e dal tipo di permesso di soggiorno. Un sistema in cui, come nota amaramente il Tribunale, lo straniero regolare può trovarsi in condizioni peggiori dello straniero irregolare, che almeno ha diritto alle “cure urgenti ed essenziali” di cui all’articolo 35 del TUI. È qui che la discriminazione rivela la sua natura più iniqua: lo straniero senza permesso di soggiorno può accedere gratuitamente al pronto soccorso per un infarto, lo straniero regolare con disabilità deve pagare 2mila euro per una visita oncologica di controllo.
L’ordinanza pone alla Corte Costituzionale due questioni alternative. La prima, principale, chiede di dichiarare illegittimo l’articolo 34 comma 1 del TUI nella parte in cui non prevede l’iscrizione obbligatoria per i titolari di permesso per residenza elettiva derivante da conversione di precedente titolo e attribuito per percezione di prestazione di invalidità. La seconda, subordinata, mira all’articolo 34 comma 3, chiedendo di eliminare il contributo minimo fisso di 2mila euro e tornare al sistema proporzionale al reddito effettivo.
La decisione del Tribunale di Milano non è isolata. Le associazioni ASGI, APN, NAGA ed Emergency stanno promuovendo cause simili in tutta Italia, costruendo un fronte giudiziario che mira a scardinare una delle discriminazioni più evidenti del nostro ordinamento. La Corte Costituzionale si troverà davanti a una questione che tocca equilibri delicati tra tutela dei diritti fondamentali, sostenibilità economica del sistema sanitario e discrezionalità del legislatore in materia di immigrazione. Ma difficilmente potrà ignorare l’evidenza di una discriminazione che colpisce i più vulnerabili nel momento del maggior bisogno.