A inizio settembre 2025 la Digos di Torino e il Nucleo Investigativo Centrale della polizia penitenziaria, coordinati dalla Direzione centrale della polizia di prevenzione, hanno notificato un provvedimento di custodia cautelare in carcere a un quarantenne di origine tunisina, già detenuto presso la casa circondariale «Lorusso e Cutugno» (Le Vallette).

Secondo gli atti d’indagine, l’uomo — che in Italia avrebbe vissuto per più di dieci anni con un’identità fittizia — avrebbe fatto proselitismo tra i compagni di cella, diffondendo canti nasheed, racconti mistici e inviti al martirio; gli inquirenti collegano la sua attività ad ambienti vicini ad Ansar al- Sharia e rilevano la sua ammirazione per Osama bin Laden. Gli investigatori sostengono che l’indagato si sarebbe detto pronto a compiere un attentato una volta libero.

Il caso di Torino, per quanto specifico, non è un evento isolato, ma l’incarnazione di una dinamica più ampia e profonda che da anni preoccupa le autorità e gli analisti: la vulnerabilità del contesto carcerario ai processi di radicalizzazione. Quel che il caso mette in luce, e che va raccontato con documenti alla mano, è l’ambiente in cui questi messaggi circolano: un carcere affollato, spesso senza percorsi di cura, con poche figure religiose riconosciute e con strumenti di monitoraggio che a volte non bastano a trasformare una segnalazione in un intervento concreto.

In questo contesto, la propaganda jihadista trova la sua forza nell’offrire una risposta a domande esistenziali. Un leader carismatico, come il detenuto di Torino, può facilmente fare breccia nella psiche di un compagno di cella, trasformando un piccolo spacciatore o un criminale comune in un “mujahid pronto a immolarsi” in pochi giorni. I metodi di reclutamento, che spaziano dai racconti mistici ai canti di propaganda, riescono a tradurre la frustrazione individuale in un conflitto collettivo.

Il carcere, in questo senso, diventa un “campo di battaglia” in cui l’ideologia estremista si sovrappone alla violenza e al disagio della vita detentiva, fornendo un senso e una giustificazione a una rabbia altrimenti senza direzione. Il caso più noto è forse quello di Anis Amri, l’autore dell’attentato di Berlino, che durante i cinque anni di detenzione in Italia “rivestì di religiosità il suo temperamento rivoltoso”, radicalizzandosi prima di compiere la sua violenta fuga. Questo processo, paradossalmente, non è dissimile da quello che avviene sul web, altro luogo in cui si può coltivare la radicalizzazione. Entrambi gli ambienti, la prigione e il virtuale, pur essendo agli antipodi, offrono uno spazio in cui l’individuo si può auto- convincere, per poi trovare in un leader o in una rete il catalizzatore che trasforma le idee in azione. Solo che in carcere, la spinta è maggiore. Vediamo il perché.

LA SORVEGLIANZA E I SUOI LIMITI

Per capire perché la presa ideologica può attecchire dentro le mura, bisogna entrare nei rapporti, nelle circolari e nei progetti che il sistema penitenziario ha messo in campo negli ultimi anni — e capire dove si inceppano. Il Dap ha istituito da anni il Nucleo Investigativo Centrale ( NIC) come osservatorio sul fenomeno. Nel 2017 il NIC indicava un sistema a tre livelli ( alto/ medio/ basso) per classificare i detenuti ritenuti a rischio: analisi mensile per i profili più pericolosi, bimestrale per quelli medi, osservazione su richiesta per i restanti. Lo stesso documento spiega che dal 14 dicembre 2015 è stata introdotta, nell’applicativo «Eventi Critici», la categoria «rischi di proselitismo e radicalizzazione» per consentire l’inserimento in tempo reale di comportamenti o avvenimenti sospetti.

L’apparato di monitoraggio esiste, ma i numeri del rapporto parlano chiaro: su circa 700 segnalazioni esaminate in quell’anno, il 25% fu classificato come primo livello, il 14% come secondo, il 15% come terzo, mentre il 46% rimase «sotto osservazione» dalle direzioni d’istituto — cioè non venne immediatamente incanalato in una misura strutturata. È in quel vuoto di tempo che il reclutatore può trovare spazio. Quel censimento ( il rapporto Dap del 2017) è utile perché spiega due cose: il sistema è costruito sulla raccolta e sull’aggregazione di dati ( relazioni comportamentali, corrispondenze, colloqui, invii/ recezioni economiche), ma quelle informazioni richiedono tempo e risorse per trasformarsi in decisioni operative. Non è una questione tecnologica: è un problema di organico, formazione e regia.

Non si capisce la dinamica del reclutamento se non si guarda allo stato delle carceri. Come ha evidenziato Antigone, il tasso di affollamento reale ha raggiunto il 135,5%. La presenza straniera resta sempre intorno al 31,6% del totale, con la Tunisia tra le nazionalità più rappresentate tra gli stranieri. Antigone documenta poi condizioni che favoriscono rotture psicologiche: calore estivo senza adeguati servizi, sospensione di attività, carenza di ventilazione, aumento dei suicidi e dei decessi in carcere. In questo contesto, l’isolamento, la noia, l’assenza di lavoro o formazione e il senso di ingiustizia sociale sono carburante per chi cerca adepti.

La fotografia di Antigone non è retorica: è un elenco di fattori che la ricerca internazionale indica come catalizzatori della radicalizzazione in ambito carcerario — sovraffollamento, clima di tensione, assenza di programmi strutturati di reinserimento. Chi ascolta i detenuti più fragili ascolta ansia, paura e rabbia; e chi parla con fermezza e narrazioni assolute può offrire una risposta semplice e attraente.

STRUMENTI NOTI, MA POCO APPLICATI

La letteratura delle pratiche operative per arginare la radicalizzazione è ampia e concorde. La Rete europea per la sensibilizzazione ( RAN) invita a una gestione multilaterale: valutazioni del rischio specifiche per soggetti potenzialmente estremisti, interventi differenziati, formazione specialistica per il personale e continuità assistenziale al momento della scarcerazione. Il Consiglio d’Europa, nel suo manuale, insiste sulla necessità di coniugare sicurezza e diritti umani, investendo su clima carcerario, formazione e cooperazione interistituzionale.

L’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine, infine, propone protocolli operativi per la gestione dei detenuti violentemente estremisti e raccomanda strumenti di valutazione strutturati e programmi di reinserimento che coinvolgano enti esterni. Tutto questo materiale esiste e offre indicazioni concrete; il problema è che tra la teoria e la pratica c’è spesso un divario organizzativo e finanziario.

Ma, come sempre, si preferisce quasi esclusivamente la via repressiva. Un esempio è il Decreto Legge 48/ 2025, che introduce “disposizioni urgenti in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio... e di ordinamento penitenziario”. Questo provvedimento, convertito in legge nel giugno 2025, ha introdotto nuove fattispecie di reato, tra cui la detenzione di materiale con finalità di terrorismo e la divulgazione di istruzioni per il compimento di atti violenti o di sabotaggio. L’articolo 26, in particolare, introduce aggravanti per l’istigazione a disobbedire alle leggi e per il reato di rivolta se commessi all’interno di un istituto penitenziario.

Queste misure rafforzano il lato repressivo, cercando di innalzare barriere legali e sanzionatorie più severe per chi fomenta l’estremismo in carcere. Questa risposta normativa, però, non affronta le radici del problema. Un approccio unicamente repressivo e di sorveglianza, infatti, rischia di inasprire il sentimento di ingiustizia e alienazione dei detenuti, perpetuando il ciclo della radicalizzazione. La durezza del sistema, unita al sovraffollamento, è già stata oggetto di condanne da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che ha evidenziato la tensione tra sicurezza e rispetto dei diritti fondamentali. Individuare una persona che seminava odio in cella è un’operazione necessaria — la magistratura e le forze di polizia hanno fatto il loro lavoro — ma non basta. Se il carcere rimane sovraffollato, con poche attività, senza mediatori formati e con un’applicazione disomogenea delle procedure, il rischio che altre celle diventino cassa di risonanza per messaggi estremisti resta alto. I documenti internazionali dicono come intervenire; i rapporti italiani dicono che è urgente farlo e con risorse stabili.