Punire per reprimere. Sembra questo il concetto di fondo del ddl a firma M5S-LeU sulla prostituzione. Un disegno di legge presentato a palazzo Madama che criminalizza i clienti delle prostitute, seguendo l’approccio «neo-abolizionista» introdotto in Svezia nel 1999 e oggi in vigore anche in Francia. Modello, affermano i firmatari del ddl (in prima fila la pentastellata Alessandra Maiorino), che ha portato ad una diminuzione del fenomeno del 65%. La proposta prevede la punibilità dei clienti, per i quali è prevista una sanzione amministrativa da 1500 a 5mila euro. L’atto conclusivo è la sanzione dell’ammonimento da parte del questore, nel caso in cui gli elementi portino a desumere «l’abitualità» del cliente. E in caso di reiterazione della condotta è prevista la reclusione da sei mesi a tre anni, pena che potrà essere sospesa nel caso di partecipazione «con successo» a percorsi di recupero. Il senso della proposta sta tutto a pagina 9 della relazione introduttiva: «Chi alimenta la domanda di prestazioni sessuali a pagamento - si legge - rientra nel rapporto sinallagmatico partecipando a pieno titolo allo sfruttamento e alla lesione della dignità della persona». In Italia, attualmente, è in vigore un modello abolizionista: la legge, infatti, ha un approccio neutrale nei confronti dell’attività in sé e non punisce i clienti, bensì i fenomeni di sfruttamento, reclutamento e favoreggiamento. Ma tale modello, secondo i firmatari del ddl nonché secondo il Parlamento europeo, non sarebbe efficace nella repressione dei fenomeni di tratta e nel processo di affermazione della parità di genere. Il concetto di fondo, insomma, è che il cliente rappresenta «l’ultimo anello di una catena di sopraffazione che inizia con i trafficanti di persone o con le condizioni di vulnerabilità economica, sociale o personale della persona prostituita, prosegue con i suoi sfruttatori e termina con l’acquirente delle prestazioni sessuali». La Commissione europea ha fornito, nel 2018, un identikit degli attori di questo fenomeno: vittime di sfruttamento sessuale sono, nel 95% dei casi, donne e bambine. E i fruitori del mercato del sesso sono quasi sempre uomini. La prostituzione è, dunque, «un fenomeno di genere». La libera scelta, in questo panorama, non giocherebbe alcuna differenza, al di là della decisione di circa 120.000 persone (solo in Italia) di avviarsi al mercato dei sex workers. E per avvalorare la propria tesi i firmatari citano la Corte costituzionale, tirata in ballo dalla Corte d’appello di Bari nel caso di Giampaolo Tarantini, che aveva espresso dubbi di costituzionalità in merito all’articolo 3 della legge Merlin, laddove indica come illecito penale il reclutamento e il favoreggiamento della prostituzione «volontariamente e consapevolmente esercitata». Per la Consulta (sentenza 141 del 2019), la prostituzione libera non sarebbe riconducibile all’autodeterminazione sessuale, in quanto la prostituzione «non rappresenta affatto un strumento di tutela e sviluppo della persona umana, ma solo una particolare forma di attività economica». Nulla a che vedere con la libera sessualità, dunque. E nemmeno con la libera iniziativa economica, prevista dall’articolo 41 della Costituzione, in quanto anche essa ha un limite, quello della «dignità umana». «Chi offre una prestazione sessuale in cambio di un corrispettivo in denaro lo fa quasi sempre perché si trova in difficili condizioni economiche, o perché costretta con l’inganno, come dimostra la storia di tante giovani donne migranti, provenienti soprattutto dalla Nigeria, alle quali nel tempo l’Italia ha riconosciuto la protezione umanitaria e percorsi di fuoriuscita dalla tratta in base all’articolo 18 del Testo unico sull’immigrazione - dichiara al Dubbio la senatrice dem Valeria Valente, presidente della Commissione d’inchiesta sul femminicidio -. Dobbiamo quindi riconoscere che il fenomeno della tratta e della prostituzione è molto cambiato dai tempi della Legge Merlin, che è stata approvata nel 1958 principalmente per abolire le cosiddette “case chiuse” regolamentate dallo Stato. L’Indagine conoscitiva sul fenomeno della prostituzione, condotta dalla Commissione affari costituzionali del Senato e approvata il 1° luglio 2021 - aggiunge - ha escluso la possibilità di legiferare nel senso della legalizzazione della prostituzione sul modello tedesco, anche in base alla sentenza n. 141 del 2019 della Corte Costituzionale». La strada, dunque, è quella del modello svedese, il cui possibile impatto «va poi in ogni caso attentamente pensato, tenendo conto del contesto attuale del mercato della prostituzione in Italia, caratterizzato da una forte presenza della criminalità organizzata, con segregazione e controllo spesso molto violenti nei confronti delle donne». Ma c’è un punto fondamentale che Valente non manca di sottolineare: «Occorre lavorare contestualmente affinché tali pene non spingano mai l’attività di prostituzione ancora più nel sommerso, rendendo più difficile l’intervento di contrasto delle forze dell’ordine e aumentando i rischi e la violenza esercitata nei confronti delle donne costrette a prostituirsi. Le leggi da sole sono necessarie, ma non sufficienti - conclude -. Occorre lavorare instancabilmente per costruire una società in cui i rapporti tra uomini e donne siano improntati alla parità, al rispetto e al riconoscimento reciproci». Sull’opportunità di legalizzare o meno la prostituzione la società è spaccata. E anche i movimenti femministi lo sono, divisi tra chi non considera la prostituzione una forma di oppressione e chi, come “Non una di meno”, chiede invece di «attuare sforzi culturali per distinguere sex worker e prostituzione forzata, denunciando e combattendo lo stigma nel primo caso e la violenza patriarcale nel secondo» e di riconoscere i diritti di questi lavoratori. Secondo Pia Covre, che nel 1982 ha fondato il Comitato per i diritti civili delle prostitute insieme a Carla Corso, «legalizzare la prostituzione significherebbe proprio individuare i casi di tratta e sfruttamento e combatterli - ha dichiarato al Dubbio nelle scorse settimane -. La tratta non colpisce solo il lavoro sessuale, ma anche quello nei campi, nei cantieri, nell’edilizia. Se dovessimo abolire tutti i lavori dove c’è sfruttamento dovremmo chiudere molte cose del nostro mercato. E lasciare il lavoro sessuale nel sottobosco significa lasciarlo in mano alla criminalità».