«Dal momento che la prostituzione, in Italia, non è illegittima, perché non viene fiscalmente regolarizzata? Servirebbe un dibattito in Parlamento che però nessuno ha il coraggio di fare, perché il voto influenza qualsiasi discussione». A parlare al Dubbio è l’avvocato Stefano Caroli, difensore di una donna ungherese di 41 anni, con un passato da escort, finita a processo a Rimini per omessa dichiarazione dei redditi. L’accusa è di non aver versato nelle casse dell’erario centinaia di migliaia di euro di tasse derivanti dagli introiti percepiti tra il 2010 e il 2014, pari a circa 5 milioni di euro, soldi che la donna ha trasferito a Dubai grazie a una triangolazione tra San Marino e Montecarlo. E ora la sua linea difensiva riapre un dibattito mai realmente sviscerato fino in fondo: l’invisibilità delle sex worker. La donna si è infatti difesa sostenendo che tale mestiere non è riconosciuto in Italia e che per tale motivo non è riuscita ad ottenere una partita Iva dall’Agenzia delle Entrate. A processo ci è arrivata a seguito della denuncia di un cliente, che la accusava di una rapina da 100 euro: in aula la donna provò a scagionarsi sostenendo che non avrebbe avuto bisogno di quei soldi, dal momento che sul conto aveva oltre 800mila euro. Da qui la verifica fiscale, che l’ha portata nuovamente in tribunale. «La mia assistita - spiega Caroli - ha chiesto più volte di capire in che modo potesse aprire una partita Iva, che però non è prevista per questo tipo di attività in Italia. Io mi difenderò nel processo, indicando come testimone il direttore dell’Agenzia delle Entrate di Rimini per sapere quante partite Iva sono state aperte per questo tipo di lavoratori dal 2015 ad oggi. Perché occorre dimostrare l’elemento psicologico: se un lavoratore non può avere una partita Iva in che modo può versare le tasse?». Caroli rimarca, rispetto a questo tema, i vincoli legati al mondo cattolico, che però non tiene conto delle effettive ricadute in termini di sicurezza e anche il peso che avrebbe sulle casse dello Stato. «Se queste forme di lavoro venissero legalizzate gli effetti sul pil sarebbero considerevoli: solo questa ragazza non ha potuto dichiarare 5 milioni, basta fare due conti per capire di cosa stiamo parlando. Bisognerebbe avere un po’ di coraggio». In Italia le stime parlano di circa 120.000 sex workers, numeri di gran lunga più alti rispetto a molte altre categorie di lavoratori autonomi ufficialmente riconosciute, come ad esempio i farmacisti (in Italia ce ne sono 95.925 effettivamente attivi). Ma chi opera in questo settore non può usufruire di alcuna tutela, sia da un punto di vista previdenziale sia in termini di vera e propria sicurezza fisica. Il dibattito, in Italia, divide anche il mondo delle femministe: secondo alcune, infatti, la consensualità non equivale ad una scelta libera, in quanto la prostituzione si basa sull’oppressione della donna e su una divisione classista della società. Diversa la posizione di “Non una di meno”, che invece chiede di «attuare sforzi culturali per distinguere sex worker e prostituzione forzata, denunciando e combattendo lo stigma nel primo caso e la violenza patriarcale nel secondo» e di riconoscere i diritti di questi lavoratori. Una battaglia portata avanti da 40 anni da Pia Covre e Carla Corso, che nel 1982 hanno fondato il Comitato per i diritti civili delle prostitute, che si batte per l’abolizione della legge Merlin, la legalizzazione della prostituzione e il riconoscimento del lavoro sessuale. «Legalizzare la prostituzione significherebbe proprio individuare i casi di tratta e sfruttamento e combatterli - ha spiegato Covre al Dubbio -. Purtroppo accade spesso che i sex worker vengano accusati di non pagare le tasse. Ma se è giusto che ogni cittadino che lavora paghi le tasse allora bisognerebbe riconoscere questo lavoro, perché in questo momento è un lavoro informale e molto criminalizzato: anche se non è illegale farlo, non è del tutto legittimo». Non ci sarebbe, però, la volontà politica di affrontare davvero il problema di una legalizzazione completa di questo lavoro. «Servirebbe una decriminalizzazione - ha aggiunto - e poi un riconoscimento che dia diritti veri ai lavoratori. Il fenomeno è molto cambiato ed è forse meno visibile nelle strade, più occultato nelle case, però si fa finta di non vedere e, di volta in volta, si fanno piccole rappresaglie come questa, spesso su persone molto più povere di quella che riguarda il caso in questione. Considerato che oggi le persone che lavorano in questo settore sono per la maggior parte straniere, avere la possibilità di veder riconosciuto il loro lavoro significa anche poter regolarizzare la propria posizione come cittadino lavoratore, con dei regolari permessi di soggiorno. In attesa, queste persone devono trovare altri escamotage per regolarizzare la propria posizione oppure continuano a rimanere illegali e clandestini. Il che significa affidarli a reti di racket e di delinquenti». Attualmente il dibattito parlamentare è fermo. Delle proposte sono state presentate nel tempo, ma vanno da un estremo all’altro: da chi vuole criminalizzare i clienti a chi vuole riaprire le case chiuse. «Sono leggi non accettabili e poco proponibili - ha sottolineato Covre -. C’è una classe politica molto pavida, che non si vuole sbilanciare e ha paura di perdere la faccia. Il Vaticano preme perché si criminalizzi questa attività in assoluto e una parte del femminismo vuole criminalizzare i clienti. Ma anche questo è un danno per chi sceglie questo lavoro, con il pretesto di sconfiggere la tratta di essere umani. La tratta, però, non colpisce solo il lavoro sessuale, ma anche quello nei campi, nei cantieri, nell’edilizia. Se dovessimo abolire tutti i lavori dove c’è sfruttamento dovremmo chiudere molte cose del nostro mercato. E lasciare il lavoro sessuale nel sottobosco significa lasciarlo in mano alla criminalità».