Riportiamo di seguito un ampio estratto della “Relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2013” proposta da Gianni Canzio nella veste di presidente della Corte d’appello di Milano, poi Cassazione.

Il seguente testo è tratto in particolare dal secondo capitolo della “Parte II” di quella relazione, intitolato “Le riforme del diritto e del processo penale”.

È davvero efficace il processo di cui si programma lo scivolamento verso un esito proscioglitivo per il mero decorso del tempo, cui la difesa ha il diritto di tendere, con il conseguente fallimento della funzione cognitiva di accertamento della verità e con la sconfitta dell’ansia di giustizia delle vittime e della collettività? Si aggrava la crisi di autorevolezza della giurisdizione, si compromette la tenuta del sistema, mentre aumenta la distanza della nostra disciplina rispetto agli apparati di tutela riconosciuti dalle fonti convenzionali e sovranazionali e praticati dalla maggior parte dei Paesi europei.

PRESCRIZIONE, STOP MA POI TEMPI CERTI

Al fine di restituire razionalità ed efficienza al sistema non è opportuno allungare ulteriormente i termini della prescrizione sostanziale e, di conseguenza, la durata dei processi, bensì sembra più coerente stabilire il divieto di dichiarare la prescrizione del reato nel corso del processo, salvo che prima della sentenza di condanna di primo grado non sia già decorso il tempo necessario, assicurando termini celeri e certi per le successive, eventuali, fasi di impugnazione, la cui ingiustificata violazione non resti priva di conseguenze.

Si è proposto di anticipare l’inefficacia della prescrizione all’avvenuto esercizio dell’azione penale. La proposta, all’apparenza più radicale, presenta tuttavia serie controindicazioni per il rischio che essa possa autorizzare prassi non virtuose dell’organo di accusa, sotto il profilo dell’allungamento dei tempi delle indagini preliminari fino allo spirare dei termini prescrizionali ovvero dell’incompletezza delle stesse, di cui dovrebbe poi farsi carico la fase del giudizio, resa immune dalla pressione della prescrizione del reato.

Sembra perciò preferibile la tesi di sterilizzare gli effetti estintivi della prescrizione “sostanziale” del reato dopo che sia stata pronunciata la sentenza di condanna di primo grado, laddove non sia già decorso il tempo necessario.

Per non lasciare sprovvisto di tutela l’imputato che sia stato condannato vanno previsti, peraltro, termini certi e legalmente predeterminati di durata massima per le fasi e i gradi di impugnazione fino alla pronuncia irrevocabile, il cui compasso temporale ben può essere disegnato secondo i limiti di durata ragionevole del processo fissati, ai fini dell’equa riparazione, dall’art. 2, comma 2- bis l. n. 89/ 2001, modif. dall’art. 55 d. l. n. 83/ 2012, conv. in l. n. 134/ 201: due anni per l’appello, un anno per la cassazione, ancora un anno per l’eventuale giudizio di rinvio ecc.

Termini che dovranno essere calcolati a partire dal momento dell’effettivo pervenimento degli atti al giudice dell’impugnazione e ragionevolmente calibrati ( in virtù di limitate e tassative ipotesi di proroga o sospensione) in considerazione, soprattutto, di taluni indici di particolare “complessità” della fattispecie ( ad esempio, numero degli imputati e/ o delle imputazioni e dei difensori, esigenza di riapertura dell’istruzione probatoria ecc.), sulla falsariga di quanto prevede l’art. 304 c. p. p. con riguardo ai termini di durata massima della custodia cautelare.

La violazione dei suddetti termini non può rimanere, peraltro, priva di conseguenze.

ILLECITI DISCIPLINARI, SCONTI: NON BASTA

La qualificazione dell’ingiustificata violazione come mero illecito disciplinare non soddisfa il fine di tutela del diritto del condannato alla celere definizione della sua posizione processuale in termini certi e predeterminati, rivelandosi eccentrica, di per sé, all’obiettivo della ragionevole durata della fase impugnatoria. La previsione di un’attenuante speciale con la diminuzione della pena fino a un terzo, in caso di conferma della statuizione di condanna e di superamento dei limiti di durata ragionevole della fase di impugnazione ( secondo il modello “compensatorio” tedesco), presenta anch’essa significative controindicazioni: per un verso, la previsione legislativa di una diminuente - alla fine - per il giudizio “allungato” rischia di disincentivare gli effetti premiali del percorso alternativo - all’inizio - del giudizio “abbreviato”; per altro verso, la difficoltà di proporzionare l’entità della diminuzione di pena alla concreta portata del prolungamento dei termini di fase comporterebbe una varietà applicativa e si sostanzierebbe in un’ingiustificata disparità di trattamento.

LA PRESCRIZIONE PROCESSUALE E I FILTRI

Esclusa la congruità della sanzione disciplinare e l’applicabilità di una mera diminuzione di pena a favore del condannato, la reazione dell’ordinamento alla violazione dei termini di durata massima della fase impugnatoria ( pure prorogati o sospesi nei casi tassativamente consentiti) non potrà non consistere nella declaratoria d’improseguibilità dell’azione penale per la sopravvenuta “prescrizione del processo”.

E però, affinché la prescrizione processuale non diventi anch’essa agente “patogeno” incentivando strumentalmente le impugnazioni, occorre anche intervenire - oltre l’auspicabile enunciazione di principio del “dovere di lealtà processuale” dei soggetti del processo contro ogni ipotesi di abuso - mediante un’attenta regolamentazione della disciplina delle preclusioni endoprocessuali in tema di competenza, invalidità degli atti e notificazioni, dei rapporti fra gravami incidentali e giudizio principale, e, soprattutto, della semplificazione degli esiti d’inammissibilità delle sequenze impugnatorie.

Per ridare respiro e dignità al processo penale, la salvaguardia del secondo grado di giudizio pretende logicamente l’estensione della disciplina dell’inammissibilità del gravame, oltre i casi di aspecificità anche alle ipotesi di manifesta infondatezza dei motivi di ricorso.

A seguito del recente intervento riformatore di cui all’art. 54 del “decreto sviluppo” si è previsto, con riguardo al giudizio civile d’appello, che, sentite le parti e con ordinanza succintamente motivata, l’impugnazione può essere dichiarata inammissibile “quando non ha una ragionevole probabilità di essere accolta”, cioè quando essa si prospetti manifestamente infondata secondo una meditata prognosi di sicuro insuccesso.

Orbene, attesa la ratio dell’istituto, non appare coerente né logicamente sostenibile una diversità del meccanismo dell’inammissibilità fra l’appello civile e quello penale.

LE GARANZIE DIFENSIVE SAREBBERO CONGRUE

Perché meritino di essere preservati ben tre gradi di giurisdizione occorrono seri filtri delle impugnazioni, nel senso di un necessario restringersi dei cerchi concentrici dell’ordo processus all’esito di un’attenta opera di selezione dei ricorsi ammissibili, secondo l’istituto di comune matrice europea del leave to appeal.

Non si ravvisa, in effetti, alcuna ragione perché si debba celebrare l’udienza di merito anche per un appello affetto dal vizio di aspecificità o di manifesta infondatezza delle ragioni che lo sostengono: è uno spreco di risorse, questo, che nessun sistema processuale può consentire. Le garanzie della difesa a fronte dell’opera di selezione sono comunque ampie: la competenza specializzata del magistrato che procede allo spoglio del fascicolo; la deliberazione collegiale in camera di consiglio ( eventualmente partecipata), l’ordinanza pur succintamente motivata, la ricorribilità per cassazione della stessa per la verifica di correttezza dello scrutinio d’inammissibilità. (...) Più in generale, in una visione d’insieme del sistema, l’attività di selezione delle impugnazioni ammissibili/ inammissibili è destinata ad agevolare la crescita professionale di tutti i protagonisti del processo, sia giudici che avvocati, e ad assicurare larghezza di tempi, attenzione e risorse alle impugnazioni selezionate come davvero meritevoli di essere trattate nel pieno merito.