Ieri all’ospedale San Paolo di Milano è morto Giuseppe Gallico, ritenuto il boss ai vertici dell'omonima cosca di 'ndrangheta di Palmi. Non rispondeva più ai trattamenti medici. Aveva 66 anni, di cui 34 trascorsi in carcere, compresi 22 al 41 bis. Lo scorso giugno gli avvocati - Guido Contestabile e Antonio Cristallo - avevano chiesto il differimento della pena per la gravità delle sue condizioni di salute: «Cardiopatia ischemica cronica e fibrosi polmonare idiopatica, malattia rara a carattere progressivo, con sviluppo di insufficienza respiratoria».

Il paziente è a «rischio di eventi anche fatali». «Sussistono tutti i presupposti per il differimento della pena, anche nella forma degli arresti domiciliari, per consentirgli almeno di morire dignitosamente assistito dai propri cari in un ambiente consono alle sue condizioni», ci racconta in una lettera il fratello Carmelo Gallico che ricorda: «È in carcere dal febbraio del 1990 senza soluzione di continuità; condanna all’ergastolo ostativo, 41 bis: il valore della legge supera il valore della vita di un uomo. Per lui nessuna possibilità di salvezza: né il trapianto, né le cure, né la dignità di morire da padre, marito, fratello, nonno, uomo. Il magistrato di sorveglianza rigetta l’istanza dei difensori e trasmette gli atti al Tribunale. Intanto le sue condizioni si aggravano di giorno in giorno: respira sempre più a fatica, il supporto dell’ossigeno diventa costante; in carcere non si può che disporre delle bombolette della durata massima di due ore. Ma ha una data scritta sul calendario: 11 novembre 2022, l’udienza dinanzi al Tribunale di Sorveglianza che dovrà decidere sulla sua scarcerazione è stata finalmente fissata», scrive Gallico.

«La gravità delle sue condizioni induce gli avvocati a riproporre istanze d’urgenza al magistrato di sorveglianza. Niente da fare. Ogni richiesta, ogni sollecito, cade nel vuoto. E l’11 novembre arriva, l’udienza si tiene, il tribunale si riserva la decisione. Ma anziché decidere, sposta il limite del tempo: un’altra udienza al 25 novembre per l’asserita necessità di acquisire ulteriori notizie ed integrazioni. Un’altra corsa contro il tempo. Le informazioni richieste arrivano prima dell’udienza, confermano la gravità delle condizioni, l’imminente pericolo di vita, l’incompatibilità delle sue condizioni con la detenzione, la possibilità di accoglienza in una struttura in cui poter essere assistito dai suoi familiari. Eppure il Tribunale riesce ancora ad inventarsi un ulteriore rinvio. Questa volta il 27 gennaio», giorno in cui finalmente accoglie la richiesta nella forma degli arresti ospedalieri.

Intanto il 24 gennaio, «l’ultima grave crisi respiratoria costringe il suo ricovero nel reparto protetto penitenziario all’interno dell’Ospedale San Paolo di Milano. Sia chiaro: a chi immagina un ambiente simile a quello ospedaliero va subito detto che tutti i detenuti portati in quel reparto preferiscono la propria cella alla stanza ospedaliera. Una tomba scavata nel cemento: niente finestre, niente arredi e televisione, né voce umana. Il senso claustrofobico di solitudine e abbandono in quell’asettico buco, senza uscite è più temibile della paventata morte». L’uomo il 27 gennaio stesso viene trasferito in un reparto ordinario a seguito della decisione del Tribunale di Sorveglianza. «La mattina del 28 solo la moglie riesce a rubare alla morte un attimo ancora della sua vita, un lampo di coscienza, una mano che tornava a stringersi dopo oltre 30 anni della separazione imposta dal vetro divisorio che impedisce qualsiasi contatto fisico ai detenuti del 41 bis. I figli, gli altri familiari “autorizzati”, si sono dovuti accontentare di vederlo agonizzante e ormai incosciente, o come me, attraverso uno sguardo rubato a quella porta socchiusa sul corridoio. Tra la notte del 29 e le prime ore del 30 gennaio, la morte gli ha restituito la libertà e la dignità che il cinismo umano della gente per bene gli ha negato fino al suo ultimo agonizzante respiro». Conclude Gallico: «Lo hanno restituito così alla famiglia: agonizzante, in stato di incoscienza, ad un respiro dalla fine». Ma questa è la prassi normale adottata per i detenuti al 41 bis. Un cinico e crudele calcolo: «Non è questione di umanità, ma di credere nei valori delle nostre leggi», dice riprendendo una recente frase dell’ex magistrato Davigo.