Dismettere la parola “edilizia” per parlare di “architettura penitenziaria” in una chiave costituzionalmente orientata. È la prima proposta emersa al termine dell’evento “Carcere al femminile” che si è tenuto sabato scorso a Perugia in occasione dell’ 8 marzo. L’iniziativa, promossa dal Consiglio nazionale forense (Cnf) e dalla sua Fondazione dell’Avvocatura italiana (Fai) con il quotidiano Il Dubbio, ha posto l’attenzione sui diritti delle donne detenute e sulla necessità di recuperare una prospettiva di genere anche nella dimensione penitenziaria, a partire da una architettura volta al recupero e al reinserimento sociale delle persone ristrette.

In quest’ottica, il ciclo di dibattiti tra esponenti dell’avvocatura e della politica si è concluso con una “provocazione culturale” promossa dall’istituzione forense per ripensare i luoghi di detenzione a partire dalla loro definizione, soprattutto in vista dei lavori avviati dal governo per far fronte al sovraffollamento nelle carceri.

Come è noto, infatti, è stato recentemente nominato un nuovo commissario per l’edilizia penitenziaria, Marco Doglio, che resterà in carica per un anno e avrà a disposizione i 250 milioni di investimento stanziati dall’esecutivo per la creazione di nuovi posti. «L’invito è che il nuovo commissario possa essere indirizzato dal governo a una visione non più di mera “edilizia” ma di architettura, come punto centrale dal quale partire per una vera riforma del sistema carcerario», ha spiegato Vittorio Minervini, consigliere Cnf e vicepresidente Fai.

«Bisogna ripensare l’architettura sia in chiave maschile che femminile, con l’obiettivo di accogliere e considerare le differenze di genere - ha aggiunto Minervini -. Più in generale, si tratta di ripartire dagli edifici, che sono costruiti in maniera del tutto inadeguata per contenere le persone che devono espiare una pena, in modo da garantire quella funzione rieducativa prevista dalla Costituzione per riconciliare l’autore del reato con se stesso e con la società».

Ad aprire i lavori della giornata, a nome del presidente del Cnf Francesco Greco, il vicepresidente Francesco Napoli, che ha dedicato un ricordo commosso a Guido Alpa, scomparso venerdì scorso. A seguire gli interventi del presidente dell’Ordine degli avvocati di Perugia, Carlo Orlando, e della sindaca Vittoria Ferdinandi, che ha ringraziato l’avvocatura per aver acceso i riflettori «sui margini dei margini» della società, ovvero le donne in carcere. Dopo il primo tavolo “tecnico”, al quale hanno preso parte Rita Bernardini, presidente di “Nessuno tocchi Caino”, l’avvocata Elisabetta Brusa, componente della Commissione Carcere Ocf e l’architetta Federica Sanchez, esperta in neuroscienze applicate, la parola è passata alle rappresentanti del Cnf e dell’avvocatura locale: Francesca Palma, coordinatrice della Commissione per le persone private della libertà del Cnf, Lucia Secchi Tarugi, coordinatrice della Commissione Pari Opportunità del Cnf, Francesca Brutti, presidente del Cpo del Coa di Perugia e Francesca Pieri, coordinatrice della Commissione Progetto Donna dello stesso Ordine.

Ad aprire il dibattito l’intervento di Giovanna Ollà, consigliere segretario del Cnf, che ha posto l’attenzione sul ruolo attivo dell’avvocatura istituzionale nell’interlocuzione privilegiata con la politica. Tante le testimonianze, i progetti e le proposte raccolte nel corso dei dibattiti, che sono confluiti nel panel conclusivo al quale hanno preso parte le parlamentari Susanna Donatella Campione (Fdi), Mariastella Gelmini (Noi moderati – Centro popolare), Maria Elena Boschi (Iv) e Debora Serracchiani (Pd).

Il confronto politico si è focalizzato sulla norma del Ddl Sicurezza, attualmente in discussione al Senato, che prevede l’eliminazione del differimento obbligatorio della pena per le donne incinte e le madri con figli di età inferiore a un anno. Una norma di «inciviltà», secondo Serracchiani e Boschi, la quale ha sottolineato che a farne le spese sono soprattutto i minori.

Per Gelmini non bisogna dimenticare i motivi che hanno spinto il governo a ripensare la norme, «ovvero l’evidenza di casi in cui questa misura» ha condotto «alla reiterazione di alcune fattispecie di reati». Mentre la senatrice Campione ha sottolineato come «il dibattito sulle donne in carcere si sia incentrato in maniera sbilanciata sulle detenute madri», trascurando il resto della popolazione carceraria femminile.