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Le parole di Gianni Alemanno dal Braccio G8 di Rebibbia non possono essere liquidate come un semplice sfogo personale. Rappresentano, piuttosto, la voce di un’intera comunità dimenticata, composta da uomini e donne reclusi in un sistema penitenziario che, invece di assolvere alla funzione costituzionale di rieducazione, troppo spesso diventa un luogo di abbandono, degrado e disperazione.
In Italia, la condizione delle carceri è da anni oggetto di denunce da parte di organismi internazionali, associazioni, garanti e giuristi. Celle sovraffollate, strutture fatiscenti, personale insufficiente e carenza di programmi trattamentali: queste criticità si intrecciano in una spirale che colpisce indistintamente detenuti e operatori. In questo quadro, la denuncia di Alemanno non è soltanto un atto di autolegittimazione, ma un contributo necessario al dibattito pubblico su una questione che riguarda la dignità umana e lo Stato di diritto.
È un paradosso estivo. L’immagine evocata – la “politica in ferie” e i detenuti abbandonati “come cani in autostrada” – è volutamente dura, ma non priva di fondamento. Nei mesi estivi, la macchina giudiziaria rallenta, le attività penitenziarie si riducono, e i tempi per decisioni fondamentali, come quelle relative a permessi o misure alternative, si dilatano ulteriormente. Questo comporta un aggravamento della tensione interna, mentre situazioni sanitarie o familiari emergenziali restano sospese in un limbo burocratico.
Tra le figure più colpite da questa instabilità ci sono gli “ex art. 80”, professionisti specializzati – psicologi, psicoterapeuti e criminologi – che operano a contratto per l’amministrazione penitenziaria. Il loro ruolo è cruciale: ascoltano, mediano, progettano percorsi di reinserimento, individuano fragilità psicologiche e prevenono situazioni di rischio. Eppure, il loro impiego è segnato da precarietà contrattuale, stipendi bassi e mancato riconoscimento istituzionale. Molti di loro, pagati a ore e spesso senza garanzie, condividono con i detenuti la frustrazione di lavorare in un sistema immobile. Subiscono il logoramento emotivo derivante dal contatto quotidiano con sofferenza, rabbia e disperazione, senza ricevere adeguato supporto psicologico o formativo. La loro condizione è un termometro della scarsa priorità che lo Stato attribuisce alla funzione rieducativa della pena. Fortunatamente il Legislatore sta valutando che percorsi di stabilizzazione intraprendere.
Alemanno, proprio nella sua lettera, ricorda indirettamente un principio basilare: la privazione della libertà non può mai tradursi in privazione della dignità. La Costituzione, all’art. 27, sancisce che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Ma come può avvenire questo in istituti che non garantiscono cure mediche tempestive, spazi adeguati, accesso al lavoro e alla formazione?
Le statistiche sui suicidi in carcere – decine di casi solo nei primi mesi dell’anno – non sono numeri isolati, ma l’effetto di una condizione sistemica di abbandono. L’assenza di interventi strutturali produce un doppio danno: mina la possibilità di recupero del detenuto e logora irrimediabilmente il tessuto umano di chi, come gli ex art. 80, cerca di sostenerlo.
Ben inteso, perché chi scrive non vuole essere frainteso. Difendere le parole di Alemanno non significa ignorare le responsabilità individuali che lo hanno condotto alla detenzione. Significa, piuttosto, riconoscere che la civiltà di uno Stato si misura dal modo in cui tratta le persone private della libertà. Una giustizia che rinuncia alla propria funzione di reintegrazione sociale diventa soltanto un meccanismo di esclusione, alimentando recidiva e marginalità.
Gli appelli lanciati da personalità pubbliche, specie quando provengono dall’interno delle mura, hanno il merito di riportare la questione carceraria al centro dell’agenda politica. Ma serve un’azione coordinata quale la velocizzazione del processo di valorizzazione degli ex art. 80, con contratti dignitosi, stabili, oltre al potenziamento dei servizi sanitari e psicologici negli istituti di pena; lo snellimento delle procedure per la concessione di misure alternative e permessi; piani di edilizia penitenziaria per ridurre sovraffollamento e degrado strutturale.
Le parole di Gianni Alemanno, lette senza pregiudizio, sono un atto di denuncia collettiva: parlano di una frattura tra la missione costituzionale della pena e la realtà quotidiana delle carceri italiane. Una frattura che colpisce detenuti, personale penitenziario, operatori esterni e, in ultima analisi, l’intera società.
Ignorare questo grido significa accettare un modello di giustizia incapace di offrire una seconda possibilità e di tutelare la dignità umana. Ascoltarlo, invece, è il primo passo per restituire allo Stato il volto di una democrazia matura, che non ha paura di guardare nelle proprie zone d’ombra e di intervenire per sanarle.