Il 4 settembre si è conclusa la lettura tecnica del Consiglio dell'Unione europea della nuova proposta di Regolamento sui rimpatri, presentata dalla Commissione europea l'11 marzo 2025 per sostituire l'attuale Direttiva Rimpatri. Ma dietro il nome tecnico si nasconde quello che oltre 200 organizzazioni, tra cui l'Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione (Asgi), considerano un vero e proprio “Regolamento sulle deportazioni”. Le associazioni hanno sottoscritto un documento congiunto per denunciare un cambio di paradigma nelle politiche migratorie europee: i movimenti delle persone vengono ora trattati come una minaccia, giustificando deroghe alle garanzie fondamentali dei diritti umani.

La proposta si fonda su politiche punitive, centri di detenzione, deportazioni e misure di coercizione, invece di concentrarsi su protezione, alloggio, sanità e istruzione. Le istituzioni europee hanno reso criminalizzazione, sorveglianza e discriminazione strumenti ordinari della governance migratoria, abbandonando l'approccio basato su protezione, sicurezza, inclusione sociale e ampliamento dei canali sicuri e regolari. “Le istituzioni e gli stati membri dell'Ue devono respingere misure di deportazione basate su approcci punitivi e coercitivi, che abbassano gli standard dei diritti umani e colpiscono in modo sproporzionato le persone razzializzate”, si legge nell'appello. Una delle misure più contestate è la possibilità di deportare una persona verso un paese extra-Ue con cui non ha alcun legame personale, che abbia solo attraversato o in cui non abbia mai messo piede. Una misura che, secondo le associazioni, "distruggerebbe famiglie e comunità in tutta Europa”. Il regolamento consente inoltre l'istituzione di “hub di ritorno” al di fuori del territorio Ue, centri simili a prigioni per chi attende la deportazione. Questi hub comporterebbero numerose violazioni dei diritti, tra cui detenzione arbitraria automatica e negazione dell'accesso alle garanzie legali.

La proposta promuove l'uso sistematico della detenzione, estendendone la durata massima da 18 a 24 mesi. I criteri per la detenzione vengono allargati includendo condizioni che riguardano la maggior parte delle persone entrate irregolarmente in Europa: la semplice mancanza di documenti o la condizione di senzatetto sarebbero motivi sufficienti. Particolarmente grave la previsione della detenzione di minori, nonostante il diritto internazionale e gli standard sui diritti umani indichino chiaramente che si tratta sempre di una violazione dei diritti dell'infanzia.

Il regolamento amplia la sorveglianza digitale delle persone nei procedimenti di deportazione, prevedendo la raccolta e condivisione estesa di dati personali, compresi dati sensibili sulla salute e precedenti penali, tra stati membri Ue e con paesi terzi privi di adeguati standard di protezione. Sono previste tecnologie intrusive nei centri di detenzione e “alternative digitali alla detenzione” come tracciamento Gps e sorveglianza tramite telefoni cellulari, che restano altamente intrusive e possono equivalere a una detenzione di fatto. La proposta elimina l'effetto sospensivo automatico dei ricorsi contro le decisioni di deportazione, rimuovendo una garanzia essenziale al diritto di ricorso effettivo. In assenza di un tempo minimo obbligatorio per i ricorsi, gli stati membri potrebbero rendere impossibile per le persone contestare efficacemente gli ordini di deportazione.

Le oltre 200 organizzazioni firmatarie chiedono alla Commissione europea di ritirare la proposta e sollecitano il Parlamento europeo e il Consiglio dell'Ue a respingerla nella sua forma attuale. “Chiediamo all'Ue di smettere di assecondare sentimenti razzisti e xenofobi e interessi aziendali, e di invertire la deriva punitiva e discriminatoria della sua politica migratoria”, conclude l'appello. “Le risorse devono essere destinate a politiche basate su sicurezza, protezione e inclusione, che rafforzino le comunità, tutelino la dignità e garantiscano a tutte le persone di vivere in sicurezza indipendentemente dallo status”.

La proposta ora passerà all'esame del Parlamento europeo e del Consiglio dell'Ue per l'approvazione definitiva, mentre cresce la mobilitazione delle organizzazioni della società civile per fermare quello che considerano un pericoloso arretramento sui diritti umani in Europa.