Riceviamo da Gianni Alemanno e pubblichiamo nel rispetto delle norme dell’Ordinamento Rebibbia, 27 luglio 2025 208° giorno di carcere

C’era una cosa che mi assillava, tra le altre, quando sono arrivato nel carcere di Rebibbia: cancellare dalla testa dei miei compagni di prigionia l’idea che io fossi l’ennesimo politicante tutto proteso a far sgarbi agli altri proprio “fregandosene del popolo”. Nel caso specifico il pregiudizio era che, essendo io un esponente politico “di destra”, la mia linea politica fosse “legge e ordine” e “buttiamo la chiavi” delle celle dei detenuti.

In effetti, un paio di giorni dopo essere entrato, fui affrontato nei corridoi del carcere da Mauro, un anziano detenuto, con i capelli lunghi e il look da hippy, che mi accusò di aver sempre votato in Parlamento contro i diritti dei carcerati. Sul momento lo affrontai strillandogli che non era vero, poi i miei compagni di cella, con un vero agio di solidarietà, si preoccuparono di farmi arrivare le scuse da parte di Mauro.

In effetti, quel pregiudizio non corrispondeva alla realtà. Io nasco in quel mondo militante degli anni ’ 70 che, durante gli anni di piombo, fu duramente perseguitato da Magistratura e Polizia in nome dell’“antifascismo militante”. Quasi solo le nostre “squadre” – stretti, attenti, scontri di piazza – era sempre colpa nostra: non colpa di un singolo o un gruppo che poteva aver sbagliato, ma una “colpa collettiva” che riguardava tutto il nostro mondo e lo esponeva a essere vittima di ogni forma di ritorsione, da quella poliziesca a quella sanguinaria dei nascenti gruppi terroristici di sinistra. Di fronte a ciò non potevamo non maturare un atteggiamento “garantista”, che conviveva in modo paradossale con i richiami – allora ancora molto presenti – al “fascismo- movimento” contrapposto da Renzo De Felice al “fascismo- regime”. Questo atteggiamento garantista ci portò perfino a schierarci contro Giorgio Almirante, quando il grande Segretario del Msi lanciò la raccolta di firme per la reintroduzione della pena di morte.

Questo mio atteggiamento garantista si consolidò, ovviamente, quando fui arrestato nel 1981 per una protesta violenta contro una sede diplomatica dell’Urss dopo il colpo di Stato del generale Jaruzelsky in Polonia. Così, quando negli anni ’ 80 divenni Segretario del Fronte della Gioventù, portai l’organizzazione giovanile del Msi a schierarsi a favore di qualche referendum garantista di Marco Pannella, e poi mi iscrissi all’associazione “Nessuno Tocchi Caino” per difendere i diritti delle persone detenute. Diventato deputato fui uno dei tre deputati di destra che, in dissenso dalle indicazioni del gruppo parlamentare di Alleanza Nazionale, votai a favore dell’indulto del 2006. Infine, da Sindaco sono stato felice di dare visibilità alle battaglie di Marco Pannella contro la pena di morte, esponendo per mesi in cima al palazzo del Campidoglio uno striscione contro l’esecuzione di Tarek Aziz.

Tornato qui a Rebibbia, non ho quindi fatto fatica a continuare sulla stessa scia, schierandomi con Fabio Falbo contro il sovraffollamento carcerario. Le nostre lettere, anche questo “Diario di Cella”, le visite di tanti esponenti politici che abbiamo “costretto” a vedere il degrado delle nostre celle, sono stati molto apprezzati dagli altri detenuti, che hanno cominciato a sostenere apertamente questa battaglia per costringere tutta la politica a prendere atto della situazione. Certo, c’è molta delusione dopo il Consiglio dei ministri che ha eluso l’emergenza carceri con false soluzioni, ma questo sostegno non sta venendo meno. Eppure il rispetto come combattente per i diritti delle persone detenute, me lo sono guadagnato per un episodio molto più semplice. È qualche tempo che le ambitissime “celle singole” ( cioè celle in cui dormi da solo, non accatastati tra 6 compagni di cella) del Braccio G8, invece di essere assegnate ai detenuti più meritevoli, vengono utilizzate per isolare quelli più problematici di tutto il carcere. A causa del sovraffollamento, ormai non sanno più dove mettere non solo i nuovi arrivati, ma anche quelli che devono rimanere separati da altri. Così nel cuore dei nostri reparti sono stati rinchiusi in isolamento ( ovvero segregati dietro le sbarre senza potersi minimamente muovere) malati di scabbia, un terrorista turco, un transessuale problematico e poi matti dediti a ogni genere di vandalismo e autolesionismo. Tutte persone che dovrebbero essere messe in reparti speciali, dove però si fa molta fatica a trovare posto.

A furia di subire queste situazioni, tra paura di contagio, allagamenti e devastazioni provocati dai matti e avance sessuali da parte del trans, le persone detenute “più anziane di cella” hanno organizzato una presenza pacifica davanti alla porta di un dirigente. Quando una delegazione è stata ricevuta, io ho sentito il dovere di non tirarmi indietro e sono entrato con loro.

Mi sono schierato in prima linea, non per protagonismo, non perché rappresentassi nessuno, ma per puro spirito di solidarietà. Poi quando quel dirigente ha cominciato a trattare con indifferenza e superficialità le persone detenute che esponevano le loro ragioni, gli ho chiesto in modo un po’ ruvido: “scusi, ma se non è in grado di fare nulla, perché non si dimette?”. Il dirigente sul momento non l’ha presa bene, ma dopo qualche ora è arrivato al braccio uno dei migliori commissari della Penitenziaria del carcere che, sia pure con molta fatica, è riuscito a risolvere provvisoriamente il problema. Episodio finito e quasi dimenticato.

Due giorni dopo mi sono visto recapitare in cella due ottime torte. Quando ho chiesto da dove venivano, mi è stato detto che una era un regalo dei detenuti del primo piano, l’altra era un regalo dei detenuti del secondo piano. Perché? Chiedo io stupito. “Perché l’altro giorno ti sei messo in prima linea”.

Ma non è stato questo il regalo più bello che ho ricevuto per quell’episodio. Il regalo più bello è stato che mentre lo raccontavo a mio figlio (per chi non lo conoscesse uno sveglio e tosto), lui mi ha interrotto dicendo sorridendo: “ovviamente… tu non potevi non metterti in prima linea”.

Questa mattina, dopo la Messa, il cappellano mi ha detto: “mi raccomando, devi continuare questa battaglia per le persone detenute, anche quando sarai fuori!”. Certo, è la vita che mi hanno insegnato: “combattere” è un destino.