La Corte Costituzionale ha depositato una sentenza destinata a fare chiarezza su uno dei nodi più delicati della riforma della giustizia penale: l' esclusione dei condannati per reati gravi dalle nuove pene sostitutive introdotte dalla riforma Cartabia. Con la sentenza numero 139, i giudici costituzionali hanno dichiarato legittime le limitazioni previste per i cosiddetti reati ostativi, ma hanno al tempo stesso ribadito con fermezza che l'esecuzione delle pene detentive deve sempre rispettare i principi di umanità e finalità rieducativa sanciti dalla Costituzione. Principi che, sottolineano, non risultano attualmente garantiti in presenza di criticità strutturali come il sovraffollamento.

La questione è approdata alla Consulta nell'ambito di due procedimenti penali riguardanti imputati condannati per reati di violenza sessuale e pornografia minorile. In entrambi i casi, nonostante le pene inflitte non superassero i quattro anni di reclusione – soglia che in genere consente l'accesso alle pene sostitutive – i giudici avevano le mani legate per poter concedere tale possibilità per via della natura dei reati, inseriti nell'elenco dell'articolo 4-bis dell'ordinamento penitenziario.

Il nodo giuridico centrale riguardava l’articolo 59 della legge n. 689/1981, così come modificato dalla riforma Cartabia, che esclude in modo assoluto la sostituzione della pena detentiva con misure alternative (affidamento in prova, semilibertà, detenzione domiciliare, lavoro di pubblica utilità) per i condannati per reati ostativi. I giudici dei due procedimenti – il gip e la Corte d’appello – avevano ritenuto che tale esclusione violasse l’articolo 76 (eccesso di delega), l’articolo 3 (disparità di trattamento) e l’articolo 27, terzo comma (finalità rieducativa della pena) della Costituzione.

La Consulta ha rigettato le eccezioni di illegittimità costituzionale, ma la sua decisione non si limita a un semplice “no”.

I giudici hanno infatti delineato un ragionamento complesso, che cerca di tenere insieme le diverse esigenze in campo. Sul piano della discrezionalità legislativa, la Corte ha chiarito che spetta al Parlamento stabilire quali reati possano accedere alle pene alternative, a condizione che tale scelta rispetti i criteri di ragionevolezza e proporzionalità. I reati ostativi, per loro stessa natura, comportano una gravità e un allarme sociale tali da giustificare – secondo la Corte – l’esclusione dalle nuove modalità di esecuzione penale. I giudici delle leggi hanno inoltre escluso che la disciplina in questione violi il principio di uguaglianza sancito dalla Costituzione. La distinzione tra reati gravi e meno gravi, ai fini dell’accesso alle pene sostitutive, non rappresenta una discriminazione arbitraria, bensì una scelta ponderata del legislatore fondata sulla diversa offensività dei comportamenti criminosi.

Particolarmente rilevante è la parte della sentenza dedicata al principio della finalità rieducativa della pena, sancito dall’articolo 27 della Costituzione. La Corte ha ribadito che tale principio, pur essendo centrale, non esclude che la pena possa perseguire anche altre funzioni, come la tutela della collettività e la prevenzione generale. Ma – ed è qui che la sentenza assume un peso specifico – il rispetto della finalità rieducativa resta un vincolo inderogabile per ogni condannato, indipendentemente dalla gravità del reato. Questo significa che anche chi sconta pene per reati ostativi deve essere messo nelle condizioni di intraprendere un percorso di risocializzazione: un percorso che sia, per usare le parole della Corte, «praticabile».

L’elogio delle pene sostitutive e la critica alle condizioni carcerarie

La Corte costituzionale non ha mancato di riconoscere il valore innovativo della riforma Cartabia, definendo «un passo significativo» l'ampliamento delle pene sostitutive e delle possibilità di accedervi. Queste misure, si legge, sono «tendenzialmente più funzionali ad assicurare l'obiettivo della rieducazione del condannato», poiché evitano gli effetti desocializzanti della detenzione e accompagnano il condannato lungo un cammino che valorizza lavoro, istruzione, relazioni familiari e reti sociali.

La Corte invita però a una transizione graduale : prima sperimentare sui reati meno gravi, lasciando fuori – per ora – quelli che «il legislatore, con valutazione non arbitraria né discriminatoria, reputi maggiormente offensivi». Ogni estensione dei benefici, aggiunge, deve essere sostenuta da adeguati interventi organizzativi e da un impianto coerente di misure alternative.

Il passaggio più severo della sentenza riguarda però la realtà quotidiana delle carceri italiane. La Consulta denuncia come le attuali condizioni di sovraffollamento rendano «particolarmente arduo il perseguimento della finalità rieducativa, oltre che lo stesso mantenimento di standard minimi di umanità della pena ». È un richiamo netto alle istituzioni: al legislatore e all'amministrazione penitenziaria vengono assegnati precisi e non rinviabili – migliorare le strutture, ridurre il sovraffollamento, incentivare i percorsi formativi e lavorativi, rafforzare il dialogo con famiglie e associazioni. Resta ora da vedere se questo richiamo riuscirà a tradursi in prassi. Riuscirà il carcere, come richiesto dalla Consulta, a essere un luogo dove – pur nella necessità della pena – non si spenga ogni possibilità di recupero, e dove il principio costituzionale della rieducazione non rimanere lettera morta?