Un’interrogazione parlamentare mette nero su bianco quello che i detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere gridano da mesi, senza ricevere risposte. Il 29 maggio, Debora Serracchiani del Partito Democratico ha formalmente chiesto ai ministri della Giustizia e della Salute di intervenire, dopo aver ricevuto – tramite l’associazione “Sbarre di Zucchero” – una lettera firmata da numerosi ristretti della Casa circondariale “Francesco Uccella”.

L’interrogazione, presentata congiuntamente da Serracchiani e dai deputati Federico Gianassi, Rachele Scarpa, Michela Di Biase e Marco Lacarra, ricostruisce in dettaglio i contenuti della denuncia dei detenuti: accesso alle cure ridotto al minimo da quasi due anni, assenza di medici generici, mancata assistenza per i pazienti oncologici, e una situazione ancora più grave per i malati cronici come i diabetici, che – secondo quanto riportato – da oltre un mese non riceverebbero più alcuna terapia.

Nel mirino anche la gestione del reparto sanitario interno. Il dirigente medico viene descritto come completamente assente: non avrebbe mai accettato nemmeno un confronto diretto con i detenuti, rifiutando anche una semplice delegazione. L’interrogazione, facendo proprie le parole della lettera, sottolinea come questa assenza venga percepita come una negazione della dignità e del diritto alle cure. Il testo affronta anche le carenze strutturali: l’istituto non dispone di alcun reparto detentivo ospedaliero, nonostante la normativa ne prevedesse l’istituzione fin dal 2000. I detenuti psichiatrici – prosegue l’interrogazione – vengono trattati come detenuti ordinari a causa della cronica carenza di posti nelle Rems. Un’emergenza silenziosa che si traduce nell’abbandono, anche nei casi in cui la fragilità mentale è evidente.

Ancora più allarmante è la condizione del cosiddetto “repartino sanitario”, che è stato allestito all’interno di un ospedale privo di pronto soccorso e con pochissime specialistiche. La conseguenza? Anche per una semplice radiografia, il detenuto deve essere spostato – da ricoverato – in altri ospedali, con tutte le complicazioni del caso. L’interrogazione non si limita alla denuncia, ma fotografa con parole nette la situazione nazionale. Scrive Serracchiani: “Il sistema dell’esecuzione penale nel nostro Paese è al collasso”. Il testo evidenzia l’elevata presenza di detenuti con problematiche psichiatriche, di persone in stato di dipendenza o depressione, e allo stesso tempo la “modestissima” dotazione di personale sanitario, psicologi e psichiatri. Le Rems sono poche, distribuite male, e strutturalmente inadeguate rispetto al fabbisogno.

Nel richiamare la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 1946 – secondo cui la salute è “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale” – l’interrogazione conclude con una domanda precisa ai ministri Nordio e Schillaci: intendano o meno adottare, con urgenza, misure volte a verificare e risanare le condizioni sanitarie del carcere di Santa Maria Capua Vetere, mettendo a disposizione personale e strutture adeguate. Questa interrogazione nasce grazie all’iniziativa di Monica Bizaj, presidente dell’associazione “Sbarre di Zucchero”, che ha ricevuto e trasmesso alle istituzioni l’appello dei detenuti. “Non si può morire di carcere e in carcere”, aveva scritto Bizaj nel documento allegato alla denuncia. Parole che oggi sono formalmente parte del dibattito parlamentare. Resta da vedere se, oltre a essere lette, verranno ascoltate.

UN PROBLEMA GENERALE DELLE CARCERI ITALIANE

A questa fotografia già grave si aggiunge un’analisi ancora più ampia e impietosa contenuta nel recente rapporto dell’associazione Antigone, intitolato emblematicamente “Senza respiro”. Il focus è proprio sul diritto alla salute in carcere. Nonostante la presa in carico sia formalmente affidata al Servizio Sanitario Nazionale, il principio rimane troppo spesso solo sulla carta. Il carcere – si legge – è un luogo “patogeno”, dove la permanenza peggiora le condizioni di salute psichica e fisica. Sovraffollamento, assenza di spazi per l’attività fisica, mancanza di presidi medici, accesso discontinuo alle terapie: tutte condizioni che trasformano la reclusione in un fattore aggravante, non solo punitivo. Le strutture sono inadeguate, il personale sanitario insufficiente e i ricoveri esterni – quando concessi – subiscono ritardi pesanti, spesso causati dalla cronica carenza di agenti per accompagnare i detenuti. L’accesso alla salute si scontra, ogni giorno, con i limiti strutturali del carcere.

L’ESPERIENZA DELLO SPORTELLO LEGALE DI “ANTIGONE” A REBIBBIA

Nel rapporto “Senza respiro” compare anche un contributo di Benedetta Centonze e Francesca Stanizzi dedicato allo sportello legale di Antigone presso la Casa circondariale di Roma Rebibbia Nuovo Complesso “Raffaele Cinotti”. Attivo dal 2012, è il primo sportello interno aperto dall’associazione: un gruppo di circa quindici volontari, tra ingressi in istituto e back office, che offre consulenza per istanze, reclami e segnalazioni alle istituzioni, senza sostituirsi agli avvocati nominati dai detenuti.

Le rubriche di assistenza hanno evidenziato un numero cresciuto di richieste legate alla salute, tanto da spingere Antigone a dialogare direttamente con i professionisti sanitari dell’infermeria. Medici, infermiere e operatori socio- sanitari hanno descritto le difficoltà quotidiane: un contesto rigido, esigenze sanitarie molteplici, turnover elevato ( il medico “di più lunga anzianità” è in servizio da solo sette anni) e un equilibrio emotivo costantemente sotto pressione.

A fine marzo 2025, i 1.561 detenuti di Rebibbia Nuovo Complesso (capienza regolamentare 1.170) facevano registrare un sovraffollamento del 133,4%. La pianta dell’istituto – con reparti distinti (G6– G14) per isolamento, tossicodipendenza, alta sicurezza, malattie infettive, disabilità fisiche, 41- bis – costringe a turnazioni complesse: i medici coprono più reparti, gli infermieri si spartiscono turni che spesso slittano oltre l’orario ufficiale, mentre di notte resta un solo medico per tutto l’istituto, affiancato da due infermieri al G6.

Il Cup interno per le prenotazioni mediche prova a dare ordine, ma le liste d’attesa esplodono: molte visite saltano per mancanza di agenti penitenziari in grado di scortare i detenuti. Così, richieste urgenti di radiografie, Tac o risonanze possono attendere mesi, se non anni; quel che conta per il detenuto è “accaparrarsi” un posto in ambulanza, spesso a fronte di promesse non mantenute.

Nel frattempo, si intensificano minacce di autolesionismo per ottenere farmaci “di scambio” – in particolare il Pregabalin – e si solleva un allarme continuo per la sicurezza delle infermiere, costrette a gestire la distribuzione dei medicinali in assenza di sufficienti agenti di polizia penitenziaria.

Il rapporto documenta poi il rapporto critico con l’Asl Roma 2, a cui spetta il reclutamento e il materiale: medici “a prestazione” senza stabilizzazione contrattuale dal 2018, infermieri e Oss assunti da cooperative esterne, assenza di ausili ( sedie a rotelle, stampelle) e scarsa manutenzione delle apparecchiature avanzate in dotazione.

Nel reparto G14, riservato a chi convive con infezioni infettive ( HIV, epatiti), l’ambulatorio specialistico c’è, ma manca l’ortopedico: un problema per fratture o traumi che obbliga a trasferimenti fuori misura. Infine, lo sportello legale registra storie emblematiche: il detenuto P. M., colpito da tumore alla laringe, ha subito laringectomia dopo lunghi rinvii di Tac; un altro ha visto l’ernia trasformarsi in urgenza da pronto soccorso per sfuggire a interminabili liste d’attesa.

Queste voci, spiegano Centonze e Stanizzi, restituiscono la misura di quanto “ammalarsi in carcere” talvolta significhi “condanna a morte”. Ora la palla passa alla politica. Ma anche all’opinione pubblica. Perché dietro quelle sbarre ci sono persone. E, come scrisse l’ex garante nazionale Mauro Palma in uno dei suoi ultimi rapporti,, “i diritti dei detenuti sono la cartina di tornasole della democrazia”. Quando in carcere si smette di curare, fuori si comincia a morire di indifferenza.