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ESTERNI ENTRATA CARCERE DI REBIBBIA ISTITUTO PENITENZIARIO ISTITUTI PENITENZIARI
Riceviamo e pubblichiamo la lettera di Fabio Falbo, detenuto a Rebibbia.
Sono Fabio Falbo 'Lo Scrivano di Rebibbia', da oltre vent’anni vivo recluso, ma non perché abbia rinnegato la mia coscienza. Sono stato condannato per reati che non ho commesso, e da allora ho sempre affermato la mia innocenza. Il mio caso è emblematico mette in luce le tensioni tra sicurezza pubblica e funzione rieducativa della pena.
Le mie ordinanze come le tante altre rispettano il concetto di udienza pubblica e sono messe a disposizione del pubblico anche con questo articolo per permettere ai liberi cittadini di leggere in questo caso, e in altri, di ascoltare e vedere in che modo si amministra la giustizia per poi capire se queste decisioni prese dai vari giudici siano avvenute nel rispetto dei diritti fondamentali. C'è da dire che se il cittadino non potesse leggere o presenziare a una udienza pubblica se ne ricaverebbe il dato che agli stessi non è permesso avere il controllo sull'amministrazione pubblica, in questo caso giudiziaria e quindi le sentenze non dovrebbero intendersi emesse in nome del Popolo Italiano.
Non ho mai chiesto sconti, né scorciatoie, ho affrontato la pena con la dignità, con l'educazione che mi è stata insegnata dai miei genitori e che porto dentro da sempre. Non ho dovuto reinventarmi, ero già una persona integra prima del carcere, e lo sono rimasto dentro.
Eppure, il Magistrato di Sorveglianza Vittoria Stefanelli (che prima aveva approvato la sintesi trattamentale stilata dall'equipe con parere favorevole al permesso premio) e il Tribunale di Sorveglianza di Roma continuano a negarmi il permesso premio, nonostante due sentenze della Corte di Cassazione abbiano annullato i rigetti, nonostante i pareri della Dna, della Dda e dei Carabinieri di Corigliano Calabro che non indicano l'attualità, e nonostante la mia condanna sia composta da 22 anni per reati non ostativi e solo 9 mesi per reati ostativi. La risposta è sempre la stessa: rigetto.
La prima richiesta ( rigettata) risale all'inizio dell'anno 2022 a firma di Vittoria Stefanelli. Il reclamo rigettato presentato al Tribunale di sorveglianza di Roma è a firma di Luigi Miraglia presidente e Anna Rita Coltellacci Giudice Relatore. In sede di rinvio la Cassazione imponeva di rivalutare le doglianze inviando gli atti al Tribunale di Sorveglianza di Roma lo stesso che rigettava nuovamente a firma di Angela Salvio presidente e Maria Raffaella Falcone Giudice Relatore.
In sede di nuovo rinvio per la seconda volta la Cassazione nuovamente imponeva di rivalutare le doglianze inviando gli atti al Tribunale di sorveglianza di Roma lo stesso che rigettava nuovamente a firma di Albertina Carpitella presidente e Chiara Gallo Giudice Relatore. Nei miei rigetti si è scritto anche questo: “... ha quindi deciso di non sprecare il tempo da trascorrere in carcere, ma i risultilti conseguiti, di natura personale ed edonistica, almeno in riferimento all’attività di studio, per un verso hanno fruttato il beneficio previsto per la partecipazione e all'opera di rieducazione, ossia la liberazione anticipata, ... per altro verso non hanno comportato alcuna maturazione... che il soggetto sembra vivere in una sorta di realtà parallela, a tratti favolistica, che invoca il suo diritto al silenzio e alla speranza e che, essendogli tutti i diritti garantiti, egli deve però anche assumersi le conseguenze dell'esercizio di tali diritti”.
Non ci si rende conto che dal lontano 2022 all'attuale 2025 ho assistito non solo a una regressione trattamentale, ma se andrà bene con il terzo ricorso in Cassazione sarò a fine pena e non sappiamo chi dovrà giudicarmi nuovamente visto i 7 magistrati che devono astenersi. Qui si tratta non solo del diniego, ma del mancato apprezzamento delle varie relazioni di sintesi positive. È come dire che per l'equipe trattamentale è frustante il lavoro svolto per tutti gli anni di osservazione. La mia uscita a fine pena senza aver usufruito di nessun beneficio è un fallimento di Stato che incita le altre persone detenute a oziare in cella proprio per far perdere credibilità al trattamento e alla riabilitazione che non viene premiata, e quindi scoraggiando così altre persone detenute a intraprendere percorsi simili.
Io mi definisco un uomo di legge, nella mia mente vi è sempre impressa l'espressione che “SEBBENE LA LEGGE SIA DURA, È UNA LEGGE SCRITTA, CIOÈ UGUALE PER TUTTI”, ma non riesco a capire come mai nel Lazio, dove sono detenuto, nel 2024 sono stati concessi solo 1.138 permessi premio su 6.665 persone detenute ( senza conteggiare le 749 persone in carico allo stesso tribunale al 41 bis o. p.), un rapporto di 0,17 permessi per persona detenuta, il più basso d'Italia. In Lombardia, nello stesso anno, sono stati concessi 14.840 permessi su 8.840 persone detenute, un rapporto di 1,68, una percentuale enormemente più alta a confronto del Lazio. Eppure queste statistiche sono ministeriali, non so se il ministro Nordio ha qualcosa da dire in merito, visto che vi è una palese violazione dell'articolo 3 della Costituzione se si pensa che il destino di una persona dipenda dalla regione in cui è detenuta.
Questa non è giustizia, è una giustizia a geometria variabile, che cambia da regione a regione, da magistrato a magistrato, è una giustizia che pretende il “ravvedimento” anche da chi non ha nulla da cui ravvedersi. Che punisce chi non collabora, anche quando non c'è nulla da confessare, che considera la professione di innocenza come una colpa.
È vero io non sono cambiato, non perché non voglia, ma perché non ho nulla da cambiare, la mia pena non è stata rieducativa, è stata una prova di resistenza morale che ho affrontato con quella resilienza sorridente seppur a denti stretti. E se oggi che sono quasi a fine della mia condanna, mi devo ritrovare ancora a ricorrere per la terza volta in Cassazione, è solo perché non ho piegato la testa. Questo ennesimo rigetto farà capire a persone di buon senso che nessuno ha il potere di piegare l'altro oltre il necessario.
Questa non è solo la mia storia, è la storia di un sistema che, quando non riesce a rieducare, preferisce umiliare. Ma io non mi lascio umiliare, perché la mia dignità non è in discussione, e non sarà il silenzio di un tribunale di sorveglianza a cancellarla.
La giustizia dovrebbe essere il luogo dove la verità trova ascolto, dove la persona viene valutata per ciò che è, non per ciò che è stata accusata di essere. Ma nel mio caso, la giustizia è diventata un rituale cieco, che ignora le sentenze della Cassazione, che ignora i pareri delle autorità competenti, che ignora la realtà e che ignora anche le parole dette in un'intervista dalla Presidente Marina Finiti che afferma bisogna guardare al presente e al futuro, parole queste non apprezzate da chi ha sempre rigettato.
Io non chiedo pietà, non l'ho mai chiesta, chiedo coerenza, chiedo che il mio percorso venga valutato per ciò che è, non per ciò che è stato, chiedo che la giustizia non sia vendetta, ma possibilità. Perché se la pena non rieduca, allora non è giustizia, è solo punizione, e se il sistema penitenziario non sa riconoscere chi è rimasto integro, allora siamo tutti più poveri. Perché la dignità non è un premio, è un diritto.