Arrestata a Fiumicino nell'agosto 2024, Veronica finisce a Regina Coeli in isolamento. È una donna trans costretta a interrompere la terapia ormonale che seguiva da mesi, abbandonata in una cella senza supporto psicologico, con alle spalle indicazioni di tratta e la paura di essere rimpatriata e subire violenze in patria. Solo a dicembre la garante dei detenuti Valentina Calderone scopre la sua storia: quattro mesi di abbandono totale in un sistema che parla di protezione ma spesso tradisce il diritto di ogni persona a sentirsi rispettata e al sicuro.

È grazie all'intervento della garante di Roma che scatta finalmente una visita endocrinologica in carcere, due colloqui con l'associazione BeFree e la richiesta di arresti domiciliari che il tribunale accoglie. Dopo quasi un anno di isolamento, Veronica torna libera per riprendere il suo percorso di transizione. La sua vicenda illumina il buco nero di un sistema carcerario che la relazione annuale di Calderone, presentata di recente, descrive senza mezzi termini: non più un'emergenza passeggera, ma una condizione strutturale.

I diritti si scontrano con la realtà

I dati parlano chiaro e sono spietati. Le carceri italiane ospitano 62.722 detenuti contro 46.706 posti effettivamente disponibili al 30 maggio 2025: un tasso di occupazione del 134,29%. A Roma la situazione è ancora più drammatica. Regina Coeli supera il doppio della capienza regolamentare con un 191,96% di sovraffollamento, mentre Rebibbia Nuovo Complesso conta 1.571 presenze contro 1.057 posti disponibili. Le proposte di indulto e amnistia per alleggerire questa pressione insostenibile sono cadute nel vuoto. Il governo preferisce puntare sulla costruzione di nuovi blocchi detentivi: 32 milioni di euro per soli 384 posti, un progetto già contestato per la qualità degli spazi e la vivibilità che offrirebbe.

Nel 2024 gli istituti penitenziari di Roma hanno registrato 1.824 eventi critici – il triplo dell'anno precedente – tra tentativi di autolesionismo, aggressioni e ogni fatto che mette a rischio la sicurezza interna. Ma è sui suicidi che emergono le contraddizioni più inquietanti: il Provveditorato indica 37 tentativi a Regina Coeli, il Garante nazionale ne conta 63. A livello nazionale, il ministero della Giustizia accredita 83 suicidi nel 2024, mentre il dossier "Morire di carcere" ne segnala 90. Differenze dovute a morti classificate "da accertare" e mai aggiornate dopo le indagini. Come si legge nel rapporto, a Roma, quattro persone si sono tolte la vita nel 2024 – tre a Regina Coeli, una a Rebibbia – e altre due nei primi mesi del 2025. La maggior parte dei suicidi avviene nella VII sezione di Regina Coeli, dove finiscono i nuovi arrivati e le persone con fragilità psichiche. Un dettaglio che fa riflettere: il 94% delle strutture in cui qualcuno si è suicidato è sovraffollato oltre il 100%, il 40% oltre il 150%. Chi sceglie di togliersi la vita ha spesso un profilo ricorrente: uomo tra i 26 e i 39 anni, detenuto da meno di sei mesi, con alto tasso di disoccupazione, senza fissa dimora e disturbi psichici non diagnosticati. Nel 2024 sono cresciuti anche i tentativi di suicidio (+177, arrivati a 2.078), gli atti di autolesionismo (+517, fino a 12.896), le aggressioni (+411, per un totale di 5.707) e le proteste collettive (+437, che raggiungono quota 1.459).

Quando curarsi diventa un privilegio

Il sistema sanitario penitenziario mostra fratture profonde che rischiano di diventare voragini. A Rebibbia Nuovo Complesso, le prestazioni specialistiche all'esterno – risonanze magnetiche, Pet-Tac, esami di secondo e terzo livello – vengono effettuate solo nel 53% dei casi richiesti. A ostacolarle sono la carenza di scorte, la mancanza di mezzi e le procedure burocratiche infinite.

Al pronto soccorso i ricoveri d'urgenza sono cresciuti fino a 179 nel 2024, mentre sui medici di guardia pesano migliaia di visite intermedie: 7.708 in un anno, il segno inequivocabile di un'assistenza non più sostenibile. Nel Cpr di Ponte Galeria le condizioni strutturali sono definite senza giri di parole "scadenti": materassi logori, bagni guasti, carenza di luce e privacy, mensa interna chiusa da anni e totale assenza di attività ricreative o sportive.

E l'intimità resta una speranza

La Corte costituzionale aveva dato una speranza. Con la sentenza numero 10 del gennaio 2024 ha stabilito che l'articolo 18 dell'Ordinamento Penitenziario viola i principi di uguaglianza, rieducazione e il diritto alla vita privata e familiare imponendo automaticamente il controllo a vista durante i colloqui con coniugi e conviventi. Nei diciotto mesi successivi, però, pochissimi istituti hanno applicato la decisione: solo alcuni magistrati di sorveglianza a Parma, Terni e Verona hanno accolto reclami specifici concedendo incontri senza guardie.

L'11 aprile 2025, dopo un lungo stallo, il ministero della Giustizia ha finalmente diramato le "Prime linee guida" per dare attuazione alla sentenza. Il documento riconosce il diritto a colloqui intimi non controllati in spazi riservati e fino a due ore, ma introduce paletti pesantissimi: esclusione per i detenuti in regime 41-bis o 14-bis, autorizzazione preventiva per chi è imputato in attesa di giudizio, ampio margine di valutazione alle direzioni che possono porre veti per precedenti disciplinari o motivi di sicurezza.

Così – come evidenzia Valentina Calderone - l'affettività in carcere rischia di essere vista come un privilegio da "concedere", non come un diritto da garantire. Si stima che circa 17.000 detenuti potrebbero accedere ai colloqui intimi, ma mancano locali attrezzati, i fondi per l'edilizia penitenziaria non coprono questa esigenza e il sovraffollamento cronico rende vane le buone intenzioni.

E poi ci sono gli invisibili

Come la storia di Veronica, le persone LGBTIQA+ vivono in uno stato di costante allerta tra ostilità, minacce e spazi che non riconoscono la loro identità. In un sistema organizzato per categorie rigide – maschile, femminile, "protetti" – chi sfugge a questi schemi rischia l'isolamento o trattamenti che negano l'accesso alle attività comuni e compromettono il reinserimento. La legge prescrive che la destinazione in sezioni omogenee sia solo su richiesta del detenuto, garantendo la partecipazione a laboratori e momenti ricreativi. Nei fatti – evidenzia la relazione annuale - la scelta è spesso simbolica: mancano locali adatti, i fondi non coprono l'esigenza e il personale non è formato per gestire le fragilità specifiche. Il risultato sono assistenza medica incompleta, terapie ormonali interrotte e un senso di abbandono che si somma al sovraffollamento.

Altri punti oscuri riguardano i minorenni: a Casal del Marmo, per la prima volta, il sovraffollamento coinvolge anche i giovani detenuti, compromettendo percorsi di istruzione e formazione essenziali. Resta carente il controllo giudiziario nei Cpr, dove manca un vero magistrato di sorveglianza per chi è trattenuto in via amministrativa, con gravi falle nel diritto di difesa.

La relazione di Valentina Calderone disegna il quadro drammatico di un sistema sotto pressione, dove "la gestione ordinaria diventa emergenza e la sofferenza si acuisce costantemente". Regina Coeli e Rebibbia restano teatri di tensione quotidiana in cui il sovraffollamento, l'emergenza suicidi e i servizi sanitari al limite si intrecciano in una spirale che sembra non avere fine. Serve una risposta politica immediata che non si limiti a costruire nuove gabbie, ma punti a misure deflative concrete, a un vero presidio sanitario continuo e a un controllo giudiziario effettivo. Perché se vogliamo davvero tutelare la dignità di ogni persona dietro le sbarre, servono più che protocolli sulla carta: servono spazio, soldi e formazione, ma soprattutto la volontà di guardare oltre l'architettura delle celle. Come ha dimostrato la storia di Veronica, a volte basta l'intervento di una persona che non dimentica che dietro ogni numero c'è una vita umana.