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È detenuto al 41 bis e ha una diagnosi di glomerulonefrite membranosa, malattia renale grave e progressiva che, senza terapia tempestiva, conduce a insufficienza renale irreversibile. L’unica opportunità per evitare il peggioramento – e per molti l’unica speranza di sopravvivenza – è il Rituximab, farmaco immunosoppressore da somministrare in ambiente sterile con personale qualificato e monitoraggio continuo.
Si chiama Giuseppe Crea, 47 anni, e il 7 ottobre davanti al Tribunale di Sorveglianza di Torino non si discuterà solo di un trasferimento carcerario, ma di un principio di civiltà: chi è privato della libertà, anche in carcere “duro”, non perde il diritto alla salute. Non si chiede uno sconto di pena, ma cure adeguate e immediate. Eppure Crea è stato “rimbalzato” da un carcere all’altro: Spoleto, Parma, Novara e di nuovo Parma, senza che nessuna direzione penitenziaria abbia preso in carico la sua richiesta di assistenza medica. Dietro questo scarica barile si cela l’ossessione per il 41- bis, che trasforma un malato in un “caso” da evitare. Il risultato è un ritardo che può costargli la vita.
Secondo la difesa – guidata dagli avvocati Guendalina Chiesi e Pasquale Loiacono con il sostegno dell’associazione “Quei Bravi Ragazzi Family– Onlus” – le condizioni igienico- sanitarie del Centro Clinico di Parma sono inadeguate: locali non sterili, personale insufficiente, carenza di apparecchiature per il monitoraggio continuo. Per dimostrarlo è stata depositata un’istanza di verifica delle condizioni da parte di esperti esterni. Ma è notoria l’inadeguatezza del centro clinico di Parma. Problematica “antica” che ha già denunciato Il Dubbio nel corso degli anni. Serve chiarezza su un ambiente potenzialmente pericoloso, dove iniziare la terapia significherebbe un salto nel buio.
Il trasferimento a Parma è avvenuto senza il consenso di Crea e in violazione dell’ordinanza del magistrato di Sorveglianza, che aveva subordinato lo spostamento all’accettazione esplicita del detenuto. Crea – cosciente del rischio – ha rifiutato di iniziare il trattamento in quell’ambiente. Oggi si trova al centro di un contenzioso che non riguarda solo la sua libertà, ma il diritto di ogni persona a ricevere cure salvavita, ovunque si trovi. La Costituzione italiana all’articolo32 stabilisce che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. Ma quando ad ammalarsi è un detenuto al 41bis, questo articolo sembra svanire. Da Spoleto a Parma, chi ricopre ruoli decisionali preferisce non assumersi responsabilità, mentre Crea è lasciato senza risposte concrete.
Come denuncia l’avvocata Guendalina Chiesi, il rischio non è teorico. Senza il Rituximab, l’infiammazione renale peggiora, i reni si danneggiano irreversibilmente, e l’unica opzione diventa la dialisi permanente, con un’aspettativa di vita drammaticamente ridotta. Le complicanze infettive e cardiovascolari potrebbero rivelarsi fatali. Ogni rinvio è un passo verso un danno irreversibile, forse mortale. I legali hanno chiesto al Tribunale di imporre il trasferimento in un ospedale civile o in altro presidio adeguato, senza sotterfugi. L’obiettivo è garantire la somministrazione del farmaco in sicurezza, sotto stretto controllo medico. La partita si gioca su pochi dettagli tecnici, ma ha letteralmente in palio la vita di un uomo.
Quel che emerge è uno specchio impietoso della tenuta umanitaria del nostro sistema penitenziario. Se il 41 bis può cancellare il diritto alle cure, allora lo Stato di diritto mostra crepe profonde. Un Paese civile non può accettare che un detenuto muoia per mancanza di assistenza sanitaria. L’udienza del 7 ottobre non sarà soltanto l’attesa per il verdetto su un detenuto: sarà un giudizio sulla responsabilità collettiva. Se la risposta sarà favorevole a Crea, si aprirà una breccia nella logica dell’esclusione; se verrà respinta, il messaggio che il carcere mette in quarantena il diritto alla salute sarà addirittura rafforzato.
Giuseppe Crea, prima di tutto, è un malato che chiede di curarsi. Un uomo a cui è stato tolto il diritto di scegliere le proprie condizioni di cura. Il 7 ottobre il Tribunale di Sorveglianza di Torino avrà l’occasione di riaffermare un principio: la salute non è una concessione, ma un diritto inviolabile, anche dentro le mura di un carcere. Nessuna norma, nessuna gravità del reato contestato, potrà giustificare la negazione di una terapia che può salvare una vita.