Il leader della Lega, Matteo Salvini, ha lanciato una proposta di legge che rimescola le carte nell’annoso dibattito sulla giustizia minorile: equiparare le pene dei reati gravi commessi dai minorenni a quelle degli adulti. L’iniziativa arriva in un clima di crescente allarme sociale per reati gravi compiuti da ragazzi e trova un’eco forte in chi chiede risposte dure. Il rischio, però, è cadere nella trappola di una soluzione semplicistica, che non risolve il problema e anzi ne aggrava alcuni aspetti.
La proposta di Salvini presuppone implicitamente che un sedicenne abbia lo stesso grado di preparazione psicologica e cognitiva di un quarantenne. Eppure, gli studi più accreditati in neuroscienze raccontano un’altra storia. Anni di ricerche sul cervello umano mostrano che le aree prefrontali — quelle responsabili del controllo degli impulsi, della pianificazione e della valutazione delle conseguenze — maturano dopo i vent’anni. Un giovane in adolescenza può distinguere il bene dal male, ma non possiede ancora i filtri decisionali di un adulto. La capacità di ponderare un rischio o di frenare un impulso nasce da sinapsi e connessioni nervose che si rinforzano con l’età e con l’esperienza. Pretendere che un sedicenne gestisca pressione, frustrazione o paura come un adulto significa ignorare queste differenze di sviluppo.
Negli ultimi anni le neuroscienze hanno fornito una mole crescente di dati che distinguono in modo netto lo sviluppo cerebrale degli adolescenti rispetto a quello degli adulti. Dati che oggi pongono interrogativi non solo sul piano scientifico, ma anche giuridico. Soprattutto quando si discute di reati gravi commessi da minori. La corteccia prefrontale, sede delle funzioni esecutive e del controllo degli impulsi, è l'ultima regione del cervello a maturare completamente. È consolidato, come riportato dagli studi sulla rivista Nature, che la mielinizzazione ( maturazione ultima del sistema nervoso centrale) della corteccia prefrontale dorsolaterale si completa intorno ai 25 anni, mentre le connessioni tra la corteccia orbito- frontale e le aree limbiche possono continuare a svilupparsi fino ai 32 anni. Questo significa che un adolescente dispone di un sistema limbico altamente reattivo agli stimoli emotivi e di ricompensa, ma con un sistema di controllo cognitivo ancora parzialmente sviluppato.

Come spiegano gli accademici Somerville, Casey e Caudle ( 2011), ciò rende i giovani più vulnerabili all'impulsività e a comportamenti rischiosi, soprattutto in situazioni ad alto contenuto emotivo. Uno studio su oltre 10.000 soggetti, condotto da Filippo Davide Zelazo e Stephanie M. Carlson dell’Università del Minnesota, ha confermato che le capacità esecutive – memoria di lavoro, inibizione delle risposte, flessibilità cognitiva – migliorano fino ai 18- 20 anni.

IL VERO OBIETTIVO DELLA GIUSTIZIA MINORILE

Nel nostro ordinamento, il sistema di giustizia minorile nasce con uno scopo preciso: rieducare. L’idea non è quella di assolvere per principio chi sbaglia in giovane età, ma di recuperare chi è ancora in una fase della vita in cui tutto può cambiare. La legge stabilisce che i minori di 14 anni non possono mai essere ritenuti responsabili penalmente. Dai 14 ai 18 anni, invece, la responsabilità penale non è automatica, ma va accertata caso per caso, valutando se il ragazzo avesse, al momento del

fatto, la capacità di intendere e di volere. A gestire questi procedimenti è il Tribunale per i Minorenni, composto non solo da giudici togati ma anche da esperti in ambito psicologico e sociale. Il tribunale mantiene la propria competenza fino ai 25 anni, se il reato è stato commesso quando l’imputato era minorenne. Intorno a questa struttura ruotano anche la Procura minorile, il Giudice per le Indagini Preliminari e il Magistrato di Sorveglianza, anch’essi con competenze specializzate.
Il quadro normativo che regola la giustizia minorile è delineato dal D. P. R. 448 del 1988, una legge che ha segnato il passaggio definitivo da un approccio repressivo a uno orientato all’educazione e alla responsabilizzazione. I principi cardine sono chiari: il processo deve adattarsi alla personalità e alle esigenze del ragazzo; si devono privilegiare strumenti alternativi alla detenzione; l’identità del minore va tutelata, anche attraverso processi a porte chiuse e il divieto di diffondere immagini o generalità.

Il carcere è previsto solo come extrema ratio e, laddove il fatto non sia particolarmente grave, il procedimento può essere archiviato per non danneggiare ulteriormente lo sviluppo del minore. Per quanto riguarda le sanzioni, le pene inflitte ai minori sono sensibilmente ridotte rispetto a quelle previste per gli adulti. Le condanne brevi possono essere trasformate in forme alternative come la semidetenzione o la libertà controllata. Inoltre, i minori hanno diritto a permessi premio più lunghi, a un’alimentazione differenziata e a una gestione più attenta del tempo detentivo.

Nel tempo, quello che era un modello punitivo pensato nel 1934 si è trasformato in un impianto normativo che mette al centro la persona del minore, la sua storia, il contesto familiare e sociale, con l’obiettivo dichiarato di favorirne il reinserimento e prevenire la recidiva. Chi lavora con i minori lo sa bene: se si riesce a intervenire in tempo, con gli strumenti giusti, si può orientare quel percorso verso una crescita diversa. Non si tratta di un'utopia buonista, ma di dati concreti: le esperienze di rieducazione e accompagnamento, se ben strutturate, riducono in modo significativo il rischio di recidiva e aumentano le possibilità che il giovane trovi un posto nella società.
Ma se si decidesse, come propone Salvini, di trattare i minorenni come se fossero adulti, tutto questo verrebbe spazzato via. Le misure alternative, la possibilità di cucire addosso al singolo un percorso educativo, il margine di mediazione da parte dei magistrati: tutto cancellato. Rimarrebbe solo la logica del carcere, rigida, impersonale, punitiva. Con una sentenza che va oltre il processo: “sei irrecuperabile”. Eppure, la paura che alimenta proposte di questo tipo è reale.

Nessuno può fare finta che non esistano atti violenti, aggressioni, reati anche odiosi commessi da giovani. Ma la tentazione di rispondere col codice penale a tutto è una scorciatoia pericolosa. Rassicura nell’immediato, ma lascia intatto il problema. Anzi, lo aggrava. Perché le radici del disagio giovanile non si affrontano aumentando le pene. Etichettare un ragazzo come adulto criminale a 16 anni vuol dire imporgli un’identità dalla quale difficilmente potrà liberarsi. E il carcere, per come è strutturato oggi, è molto più bravo a confermare quella condanna sociale che a evitarla.