Le detenute in Italia si trovano nella stragrande maggioranza in sezioni ricavate all’interno degli istituti maschili in una condizione di minoranza numerica che ne compromette l’equità nell’acceso alle opportunità trattamentali. In Italia esistono solo 4 istituti dedicati esclusivamente alle recluse: Pozzuoli, Trani, Rebibbia, Venezia Giudecca. La dispersione delle donne in 63 sezioni femminili ospitate all’interno di carceri maschili e in solo cinque istituti interamente femminili risolve il problema della vicinanza territoriale ai propri affetti prevista dall’Ordinamento penitenziario a scapito di una vita detentiva estremamente trascurata dalle istituzioni per quanto riguarda le donne in piccole sezioni. Quello che manca, è la riorganizzazione della mappa stessa degli Istituti penitenziari, prevedendone uno femminile per regione. Le detenute sono tra il 4 e il 5% della popolazione carceraria Non solo le donne in carcere sono poche, ma la maggioranza si trova dunque in comunità molto piccole, all’interno di strutture disegnate per gli uomini. La bassa incidenza statistica, parliamo di una percentuale che oscilla sempre tra il 4% e il 4,5% sulla popolazione detenuta totale, potrebbe far illudere di una maggiore attenzione istituzionale nel costruire percorsi di reinserimento sociale, ma nella pratica si trasforma in causa di discriminazione. La discriminazione non nasce da una consapevole volontà istituzionale, ma dalla mancanza di un pensiero che consideri la differenza di genere. Nella società sono solitamente le donne a portare il maggior peso di responsabilità affettiva. All’interno di penitenziari, la questione si amplifica. Quando una donna finisce in carcere, fuori ci sono sempre i figli, una madre, un padre, a volte anche un marito che contavano su di lei e che restano abbandonati e senza sostegni. E così la detenuta, oltre al peso della carcerazione, si sente colpevole di averli lasciati soli, si sente responsabile per non poter far nulla per loro e somatizza il suo malessere. Non di rado ne derivano conseguenze fisiche. Dai disturbi al ciclo mestruale, all’ansia, ma anche depressione, anoressia e bulimia. Il retaggio delle definizioni lombrosiane Se le donne portano tuttora questo peso, ciò è da ritrovarsi nella sottocultura del passato. Infatti, vi è stata nel tempo una persistente difficoltà culturale ad affrontare la problematica della donna-delinquente-detenuta, in quanto, storicamente, la donna deviante, che cioè contravveniva alle regole che la società (maschile) si era data, non è mai stata considerata, in ragione della sua inferiorità biologica e psichica, come portatrice cosciente di ribellione, ma o una “posseduta” (ad esempio strega) o una malata di mente (ad esempio isterica). Questo perché non si poteva ammettere, culturalmente, che la donna potesse coscientemente desiderare, con autonomia di scelta di uscire dal perimetro delle regole. Infatti già Cesare Lombroso scriveva nel suo testo del 1893 intitolato “La donna delinquente, la prostituta e la donna normale”: «Se la criminalità femminile è molto meno diffusa di quella maschile, dipende dal fatto che le donne sono più deboli e stupide degli uomini». In carcere le donne sono soggetti vulnerabili Inoltre, la donna delinquente, la donna colpevole, è sempre stata anche considerata macchiata dalle stigmate di aver abiurato, commettendo il reato, alla propria natura femminile tradizionalmente dedita alla maternità e alla cura; colpevole dunque, non soltanto di fronte alla legge scritta dagli uomini, ma anche verso quella di natura. Nella società libera non è corretto – riferendosi alle donne – parlare di soggetti vulnerabili. Però in carcere, in una situazione privata della libertà, tale definizione è appropriata. Lo spiega molto il rapporto del Garante nazionale delle persone private della libertà relativo all’anno 2019. Parlare di soggetti vulnerabili è giusto, perché «il carcere – si legge nel rapporto – è un’istituzione punitiva e di controllo pensata per i maschi, con regole definite attorno a tale pensiero e continua a essere tale, pur tra le molteplici voci che si alzano a dire che l’esecuzione penale è uguale per tutti e al contempo attenta a ogni specificità, a cominciare da quella di genere». Alcuni anni fa il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria aveva attivato all’interno della sua struttura organizzativa un apposito settore dedicato alla riflessione sul tema della detenzione femminile, alle proposte, al monitoraggio delle situazioni concrete. Di ciò non si è più avuta notizia in anni recenti e purtroppo il Garante nazionale si è trovato di fronte ad alcune situazioni limite in cui, per esempio, quattro donne erano ristrette in un Istituto di ben più di centocinquanta uomini. Qualche passo in avanti c’è stato, ma ancora molta strada deve essere fatta.