Non solo per i Centri di permanenza e rimpatrio per migranti – basti pensare all’esempio italiano, ma anche a quello danese –, in Europa si aggira lo spettro dell’esternalizzazione delle carceri. Il Belgio, ispirandosi alla Danimarca, ha avviato trattative per trasferire i detenuti in una prigione riconvertita in Kosovo a partire dal 2027, una possibile via d’uscita per alleggerire l’enorme pressione sul sistema penitenziario.

«Ci stiamo ispirando al modello danese, che prevede di trasferire i detenuti in un carcere ristrutturato in Kosovo a partire dal 2027. È una strada che stiamo esplorando e sono già stati avviati i primi contatti sul campo», spiega la ministra della Giustizia Annelies Verlinden in un’intervista a Le Soir. Il recente accordo del governo di coalizione, guidato dal nazionalista fiammingo De Wever, ha messo sul tavolo 150 milioni di euro extra per il 2025, destinati a combattere il sovraffollamento, a rafforzare il personale e a finanziare le riforme necessarie. Oggi il Belgio dispone teoricamente di circa 11 mila posti, ma ospita più di 13 mila detenuti, oltre a circa 4 mila condannati con pene inferiori ai tre anni ancora in attesa di esecuzione. In passato Bruxelles ha già noleggiato posti in carceri olandesi, ma quelle celle sono ormai tutte occupate. «Non possiamo più aspettare», avverte Verlinden. «Serve una risposta immediata».

Trasferire prigionieri in Kosovo non significa semplicemente affittare uno spazio vuoto. Occorrono investimenti consistenti, infrastrutture ad hoc, personale dedicato e, soprattutto, un sistema di reinserimento efficace al termine della pena. «Non basta noleggiare un edificio», puntualizza la ministra. «Dobbiamo costruire un vero e proprio sistema: ogni fase – dal trasferimento al rientro – va pianificata nei dettagli». E va tenuto presente un orizzonte di lungo periodo: non servono soluzioni tampone, ma strategie che includano la gestione dei detenuti stranieri, le procedure di espulsione e il rispetto dei diritti umani.

ESPERIMENTO DANESE ANCORA SULLA CARTA

Il pioniere in Europa è stato il governo danese. Il 15 dicembre 2021 Copenhagen e Pristina hanno siglato un trattato per l’affitto del carcere di Gjilan a fini di esecuzione delle sentenze in Danimarca. Secondo l’intesa, 300 detenuti – tutti cittadini stranieri, compresi soggetti già colpiti da provvedimenti di espulsione – saranno trasferiti in Kosovo. L’accordo, valido inizialmente per cinque anni e rinnovabile per altri cinque, prevede un contributo danese di 15 milioni di euro l’anno (fino a un massimo di 150 milioni) e ulteriori 5 milioni per ristrutturare la struttura secondo gli standard danesi.

Dopo la ratifica del Parlamento kosovaro del 23 maggio 2024, l’intesa è formalmente in vigore, ma l’effettiva messa in opera resta ancora in sospeso. «L’opinione pubblica non è stata coinvolta e non c’è stato alcun dibattito», denuncia Fatmire Haliti, avvocata e responsabile programmi al Kosova Rehabilitation Center for Torture Victims (KRCT). Finora non risultano consultazioni con associazioni per i diritti umani o organi di monitoraggio.

E sono proprio le associazioni per i diritti umani a parlare di “deportazione” verso un Paese tuttora instabile e non soggetto alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Come ha scritto Ignazio Juan Patrone, membro del comitato scientifico di Antigone, sulla rivista Questione Giustizia di Magistratura Democratica, i luoghi di detenzione vengono visitati dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura solo in base a un accordo ad hoc stipulato nel 2004 tra il Consiglio d’Europa e l’Unmik (United Nations Mission in Kosovo), l’organismo delle Nazioni Unite che ha assunto il controllo del territorio dopo la guerra della Nato contro la Jugoslavia del 1999 ed è tuttora in funzione. Non essendo uno Stato membro del Consiglio d’Europa, il Kosovo non è parte delle convenzioni promosse da tale organismo né deve conformarsi alle raccomandazioni del Comitato dei Ministri. In soldoni, “deportare” i detenuti stranieri in Kosovo significa farli

trattenere in un Paese che non può garantire il rispetto dei diritti umani, in quanto non giuridicamente vincolato agli obblighi previsti dai trattati vigenti.

L’ITALIA POTREBBE SEGUIRE L’ESEMPIO?

Il rischio di un’esternalizzazione delle carceri non riguarda solo Belgio e Danimarca, ma anche l’Italia, che ha già sperimentato un caso simile con i Centri di Permanenza per il Rimpatrio in Albania; se dovesse seguire il modello belga, potremmo presto vedere l’invio di reclusi stranieri oltreconfine, con gravi ripercussioni sui diritti fondamentali e sulla tenuta del sistema penitenziario nazionale. I centri albanesi, pensati per accelerare i rimpatri, hanno sollevato dubbi giudiziari e umanitari, rivelando un vuoto di controlli e garanzie per i trattenuti. Se l’Italia spalancasse la porta all’invio di detenuti all’estero, avrebbe poco spazio di manovra per garantire trasparenza, standard detentivi uniformi e monitoraggio indipendente Nel 2023 l’Italia ha siglato con Tirana un protocollo per istituire centri di detenzione amministrativa in Albania, destinati a stranieri irregolari intercettati in mare. Dopo la ratifica, sono già avvenuti tentativi di diversi trasferimenti: l’ 11 aprile 2025 si è tenuta la quarta operazione di trasferimento in Albania, a conferma dell’applicazione pratica dell’accordo. Il progetto ha suscitato forti critiche: l’idea di deviare i migranti verso un paese ritenuto “sicuro” priva le persone di veri strumenti di protezione internazionale. A ciò si aggiunge la totale assenza di consultazioni con organismi indipendenti: secondo Internazionale, non sono state coinvolte associazioni per i diritti umani né meccanismi di monitoraggio europei Internazionale.

La Corte d’Appello di Roma ha già dichiarato illegittimo il trattenimento in Albania di richiedenti asilo, evidenziando il contrasto con le normative UE e italiane sulla tutela dei diritti fondamentali. Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, ha denunciato il rischio di un vuoto normativo: i centri gestiti dall’Italia in Albania non sono soggetti né alla Corte europea dei diritti dell’uomo né alle raccomandazioni del Consiglio d’Europa. Il risultato è un sistema privo di trasparenza, dove l’applicazione delle norme penitenziarie rimane incerta. Senza dimenticare che le associazioni locali albanesi, come il KRCT, hanno rimarcato l’assenza di dialogo con la società civile, sollevando seri dubbi sul reale rispetto della dignità dei trattenuti stranieri.

Se l’Italia decidesse di emulare Belgio e Danimarca, esternalizzando parte dei suoi detenuti in un Paese terzo, rischierebbe uno sfilacciamento del controllo democratico sul sistema carcerario nazionale. Tra le criticità principali ci sarebbe la complessa gestione delle fasi di trasferimento e di rientro, con la necessità di garantire la continuità dei diritti dei detenuti e un coordinamento logistico che finora ha mostrato falle anche nei Cpr albanesi. Il precedente italiano dei Cpr dimostra come misure inizialmente pensate per alleggerire i flussi migratori possano trasformarsi in operazioni di dubbia legittimità, mettendo a rischio tutele fondamentali. Una scelta simile per le nostre carceri finirebbe per ridurre la trasparenza sugli standard detentivi, affidando la supervisione a Stati terzi con condizioni spesso insufficienti a garantire il rispetto della dignità umana. Il pericolo è di creare un sistema a doppia velocità: carceri “domestiche” soggette a controlli e standard europei, e strutture estere con normative meno stringenti e monitoraggio limitato.