C’è un libro che non è semplicemente un'opera editoriale. È un diario di bordo, una mappa per chiunque voglia orientarsi nella nebbia fitta dei luoghi dove la libertà, pur limitata, non può mai dirsi del tutto negata. Ed è, soprattutto, una collezione di sette messaggi, accorati e rigorosi, rivolti al cuore pulsante - o talvolta assente - della Repubblica: il Parlamento.

Il volume si intitola “Caro Parlamento”, fa parte della collana “Diritto penitenziario e Costituzione” e porta le firme di Mauro Palma, Daniela de Robert ed Emilia Rossi, il primo Collegio del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Un'istituzione nata in un momento di crisi profonda, figlia diretta della condanna subita dall'Italia per il sovraffollamento carcerario. Per otto lunghi anni, dal 2016 al 2024, Palma e le sue colleghe hanno tenuto un filo teso tra il “mondo di dentro” - quello di galere, centri di detenzione, Rems, voli di rimpatrio - e il “mondo di fuori”, quello delle leggi e della politica.

Leggere queste pagine è come ripercorrere un decennio di storia italiana visto dalla prospettiva più scomoda, quella degli ultimi, dei dimenticati. Non è un'analisi arida, formale. È un'azione politica, nel senso più nobile del termine. Il loro Garante si è rivolto al Parlamento in sette occasioni, parlando a tre diverse composizioni parlamentari e interloquendo, con coraggio e lealtà, con ben sei diversi governi.

Il dovere del Garante

Il volume non è una semplice raccolta di documenti. È il tentativo di dare forma a una memoria istituzionale che rischia di disperdersi proprio ora che servirebbe di più. Perché il nuovo Collegio del Garante nazionale, insediato dopo la fine del mandato di Palma e delle sue colleghe, finora non ha presentato alcuna Relazione al Parlamento. Non ha lasciato traccia pubblica del lavoro svolto. Non ha ripreso quel dialogo con le Camere che la legge impone e che il primo Collegio aveva costruito con pazienza, visita dopo visita, parola dopo parola.

Ma non solo. In questi giorni l'Unione delle Camere Penali critica il Garante Nazionale dei diritti delle Persone private della Libertà per aver segnalato all’organo disciplinare forense l'avvocato Michele Passione, che aveva rinunciato ai mandati difensivi in processi per tortura motivando la decisione con l’inattività e la scarsa collaborazione dell'Ufficio. Il Consiglio Distrettuale di Disciplina di Firenze ha archiviato l'esposto il 7 novembre scorso. La Giunta, per questo motivo, ha espresso perplessità per un organo di garanzia che si occupa di presunte violazioni deontologiche mentre permane silente di fronte all'emergenza carceraria e inadempiente nel riferire al Parlamento.

Ed ecco che il libro “Caro Parlamento” diventa di vitale importanza, perché fa capire come il lavoro del precedente Collegio non si sia mai limitato a una mera contabilità delle sventure. Le Relazioni annuali presentate in Aula non sono mai state ridotte a “mere rilevazioni statistiche”, sebbene i numeri siano stati sempre presenti, implacabili. Sono state piuttosto, come scrive Marco Ruotolo nell'introduzione, una costante opera di prevenzione, un argine posto contro la lesione della dignità e del libero sviluppo della persona, principi cardine della nostra Costituzione.

Palma, De Robert e Rossi hanno costruito il loro mandato sulla base di uno “sguardo plurale” e incessante. Hanno dato “visibilità al mondo del rimosso e del non accessibile”, a tutte quelle realtà che il Garante è “istituzionalmente chiamato a vedere, osservare e considerare nella loro problematicità”. Per loro, l'istituzione doveva farsi voce, e non una voce qualunque. Già nella seconda Relazione, Palma usava l'immagine degli Apostoli alla Pentecoste, che parlano una lingua compresa da tutti, per spiegare il compito del Garante: parlare in modo che ogni persona privata della libertà, in qualsiasi istituzione si trovi, possa percepire un messaggio istituzionale, non di parte.

Sette anni di visite, sette discorsi al Parlamento

Le allocuzioni raccolte nel libro coprono sette anni di mandato. Tre legislature, sei governi. Un’Italia attraversata da emergenze cicliche, tensioni securitarie, populismo penale. Ogni anno Palma, de Robert e Rossi si sono presentati davanti alle Camere per raccontare ciò che avevano visto. Non con tono accusatorio, ma con la fermezza di chi sa che certi problemi, se non vengono nominati, continuano a esistere nell'ombra.

Nel 2017, la prima allocuzione si intitola “Chiamare le cose con il proprio nome”. Palma parla del coraggio di dire tortura, anche quando è scomodo. Racconta un Paese in cui esiste ancora la fatica di pronunciare quella parola, nonostante i trattati internazionali la definiscano con chiarezza. E spiega perché un garante deve distinguere tra legalità formale e legittimità sostanziale: un insieme di atti regolari può produrre condizioni inumane.

Nel 2018, l'anno dei decreti sicurezza, il Garante si confronta con un clima politico che spinge verso la chiusura. La parola che ricorre è “attesa”. Attesa di risposte, di riforme, di risorse. Attesa che nei luoghi chiusi si trasforma in immobilità forzata, in tempo sospeso.

Nel 2019 emerge la complessità dei luoghi visitati: oltre cento ogni anno. Non solo carceri, ma centri di rimpatrio, hotspot, case famiglia protette, reparti psichiatrici. La libertà non è solo spazio, è anche tempo. E quando il tempo viene deformato - con attese interminabili, procedure inceppate, percorsi senza sbocchi - la dignità si incrina.

Il 2020 è l'anno della pandemia. Tra isolamento forzato, sospensione dei colloqui, restrizioni interne, il Garante sceglie di insistere su un concetto semplice: dare un nome a ogni persona, non ridurla a un numero. La crisi sanitaria diventa l'occasione per mostrare quanto il sistema penitenziario sia fragile quando non esistono piani, strutture, personale sufficiente.

Gli anni successivi intrecciano due metafore: la direzione dello sguardo e la misura del tempo. Il Garante osserva come i luoghi di restrizione vivano fuori sincrono rispetto alla società. Tempi rallentati, procedure bloccate, ritardi cronici nell'assistenza sanitaria e psichiatrica. Il tempo “che non si conserva”, scrive Palma, è ciò che logora più della cella.

L’ultima allocuzione, nel 2023, non è una chiusura ma un’ultima spinta. Si chiede agli interlocutori politici di assimilare quelle visite, quelle raccomandazioni, quella visione unitaria delle tante aree di restrizione. Il Garante non è un controllore, è un presidio che deve instaurare un dialogo permanente con chi governa.

Il filo non riannodato

Il desiderio che emerge, in queste pagine di bilancio, è che l'attuale Garante Nazionale riprenda con forza e convinzione quel percorso di dialogo avviato dai suoi predecessori. Il cammino da raddrizzare, di cui parla Palma, comincia proprio da lì: dalla riaffermazione di quell'indipendenza funzionale che trova la sua massima espressione nel coraggio di presentarsi in Parlamento, sette volte se serve, per raccontare senza filtri la vita, la dignità, e spesso la sofferenza, delle persone che non possono parlare per sé.

“Caro Parlamento” non è scritto per addetti ai lavori. È un libro che chiunque può leggere, perché racconta con chiarezza cosa significa esercitare un ruolo di garanzia in un Paese attraversato da tensioni securitarie, emergenze cicliche, rimozioni collettive. Leggendolo, si capisce che il Garante nazionale non è un lusso istituzionale. È uno strumento per evitare che lo Stato, nei luoghi dove esercita il massimo potere, diventi arbitrario. È un presidio per chi non ha voce. È una memoria per chi rischia di dimenticare.

Ma proprio per questo, chiudendo l’ultima pagina, resta sospesa una domanda: il nuovo Garante ha ripreso quel lavoro, o la stagione inaugurata nel 2016 si chiude nel silenzio? Finché la risposta non arriverà, questo libro resta un documento essenziale. Una mappa per non perdere l’orientamento nei luoghi dove lo Stato deve essere più trasparente e più umano. Un filo che l’attuale Garante deve avere il coraggio di raccogliere.