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Antigone ha lanciato una petizione al governo e al Parlamento. La richiesta è chiara: intervenire subito per garantire condizioni di detenzione rispettose dei diritti umani. Non sono slogan, sono numeri. E i numeri dicono che siamo tornati indietro di undici anni, a quando la Corte europea dei diritti dell’uomo condannò l’Italia per le condizioni “inumane o degradanti” delle carceri.
Era il 2013, la sentenza Torreggiani. Circa 4mila persone detenute avevano fatto ricorso. Quella condanna aprì – tra mille difficoltà – una stagione di riforme. Si parlò di dignità, di sovraffollamento, di diritti. Le condizioni di detenzione entrarono nel dibattito pubblico. Oggi siamo peggio di allora. Nel solo 2024, i Tribunali di sorveglianza hanno accolto 5.837 istanze presentate da persone detenute, riconoscendo condizioni contrarie all'articolo 3 della Convenzione europea. Quasi 6mila violazioni certificate della proibizione di tortura e trattamenti inumani. In un solo anno.
I detenuti nel nostro Paese alla data del 31 ottobre risultano essere 63.493, vale a dire 295 in più rispetto a fine settembre, a fronte di 45.651 posti effettivamente disponibili (sono 95 in meno rispetto al mese precedente). Il tasso di affollamento è quindi passato dal 135,5% al 136,4%. Una crescita costante che ha riportato il Paese a superare soglie che non venivano raggiunte da quegli anni che costarono la condanna europea. Il sovraffollamento non è un problema tecnico: è la radice di ogni altra violazione. Celle sovraffollate significano spazi ridotti al minimo, igiene compromessa, tensioni che esplodono, suicidi che si moltiplicano. Tra i detenuti, ma anche tra il personale.
C’è un altro dato che racconta la pressione sul sistema: quanto ai numeri dell'esecuzione penale esterna ci si sta avvicinando alla soglia delle 100mila persone sottoposte a misure restrittive della libertà diverse dalla detenzione in carcere. A fine ottobre sono poco più di 99.700, in aumento di 170 unità rispetto a fine settembre. Significa che il sistema nel suo complesso è al limite, e che le misure alternative – pur essendo l'unica strada percorribile – stanno reggendo a fatica il peso di una macchina penale che produce condanne senza sosta.
Cosa dovrebbe fare il governo
Le proposte di Antigone partono da una priorità: obiettivo zero sovraffollamento. Mai più un detenuto oltre la capienza legale. Per raggiungerlo, l'associazione chiede misure deflattive immediate: una clemenza, un ampliamento delle misure alternative, una riforma della liberazione anticipata. Non è buonismo, è realismo: se lo Stato non riesce a garantire condizioni dignitose, deve ridurre il numero di persone in carcere. È una questione di coerenza costituzionale prima ancora che di politica criminale.
Il documento va oltre l’emergenza numerica e tocca nodi strutturali. Il primo: l’isolamento. Le celle chiuse per la maggior parte della giornata, l'impossibilità di mantenere contatti significativi con l'esterno, la privazione della vita affettiva. Antigone chiede telefonate quotidiane per i detenuti di media sicurezza – un intervento a costo zero, viene sottolineato – e l’immediata attuazione della sentenza della Corte Costituzionale sul diritto alla sessualità e all'affettività. In molti istituti le persone detenute possono chiamare i familiari una o due volte alla settimana, per pochi minuti. Il risultato è che si spezzano i legami, si alimenta la disperazione, si perde il contatto con quella realtà esterna a cui – prima o poi – si dovrà tornare.
Poi c’è il tema dell’isolamento disciplinare, quella pratica che la ricerca scientifica definisce senza mezzi termini dannosa per la salute fisica e mentale. Antigone chiede l’abolizione totale per i minori, l’eliminazione di quello diurno per i pluri-ergastolani, una riduzione drastica per gli adulti fino alla progressiva dismissione. L’isolamento viene ancora usato come strumento disciplinare, come se la privazione della libertà non fosse già di per sé una sanzione sufficiente. Ma chiudere una persona in una cella per 22 o 23 ore al giorno, senza contatti umani significativi, produce danni irreversibili. La proposta di tornare al sistema delle celle aperte per almeno otto ore al giorno, riempiendo gli istituti di attività sociali e culturali, non è utopia: è il modello che funziona nei Paesi dove il carcere rieduca davvero. L’isolamento nuoce, recita il documento, la socialità e la cultura curano. Aprire le celle significa permettere alle persone di socializzare, di lavorare, di studiare, di fare sport, di partecipare a laboratori. Significa costruire un percorso che abbia senso, invece di limitarsi a contenere corpi in spazi sempre più ristretti. Sul fronte della modernizzazione, Antigone chiede l’approvazione del nuovo regolamento proposto dalla Commissione Ruotolo, per superare finalmente l’era pre-digitale. E chiede telecamere negli spazi comuni – scale incluse – a tutela di detenuti e operatori. Non per reprimere, ma per garantire trasparenza. Così come la richiesta di informazione ufficiale e tempestiva su morti e suicidi in carcere: la cronaca non può essere l’unica fonte su tragedie che riguardano la responsabilità dello Stato.
Il capitolo sul personale è centrale. Migliaia di nuove assunzioni in tutti i ruoli dell'amministrazione penitenziaria, non per militarizzare il sistema ma per avere operatori qualificati, anche di notte, capaci di contrastare il burnout che sta distruggendo chi lavora in carcere. Il personale penitenziario è stremato. Turni massacranti, carenza di organico, condizioni di lavoro impossibili. E poi premiare chi garantisce un modello di pena costituzionalmente orientato: favorire le progressioni di carriera per i direttori che innovano, non per chi si limita a gestire l'esistente. L’appello a investire sui Sert per politiche di riduzione del danno e sui servizi di salute mentale è significativo. Il carcere è pieno di tossicodipendenti e persone con fragilità psichiche che non dovrebbero starci. Ma finché ci sono, lo Stato ha il dovere di curarle, non di abbandonarle. La tossicodipendenza non si cura con la detenzione, si cura con percorsi terapeutici.
Due le richieste di abrogazione normativa: il reato di rivolta penitenziaria, che punisce anche la resistenza passiva rischiando di seppellire in carcere le persone più vulnerabili, e il decreto Caivano, che in due anni – denuncia Antigone – ha distrutto il sistema della giustizia minorile. Il reato di rivolta penitenziaria è una norma pericolosa, che equipara comportamenti diversissimi e che rischia di trasformare ogni protesta in un reato grave. Infine, il coinvolgimento degli enti locali: Regioni, ASL, scuole. Perché il carcere non può essere un mondo a parte, ma deve dialogare con il territorio. Investimenti nella formazione professionale, ispezioni immediate sullo stato igienico-sanitario, nuove sezioni di liceo negli istituti. Le Regioni devono investire sulla formazione professionale dentro le carceri, perché senza competenze spendibili sul mercato del lavoro non c'è reinserimento possibile.
La petizione di Antigone è un atto politico necessario. Ricorda che la privazione della libertà non può diventare privazione della dignità. Che l'articolo 3 della Convenzione europea non è un optional. Che undici anni dopo Torreggiani, l'Italia continua a violare i diritti fondamentali di migliaia di persone. E che questo non è solo un problema di chi sta dietro le sbarre, ma della democrazia nel suo complesso. Un Paese che accetta la tortura – perché di questo si tratta quando si riconoscono trattamenti inumani e degradanti – non può chiamarsi civile.


