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CARCERE SAN VITTORE
La cronaca di Milano si è tinta di tragedia nei giorni scorsi, quando Manuele De Maria, 34 anni, detenuto in permesso premio dal carcere di Bollate per lavorare come receptionist all’hotel Berna, è evaso, ha accoltellato un collega all’alba e, dopo circa trenta ore di fuga, si è tolto la vita gettandosi dalle terrazze del Duomo. Quel venerdì 10 maggio, purtroppo, non era la prima volta che De Maria commetteva un gesto inaudito: già in precedenza aveva ucciso un’altra collaboratrice dell’albergo.
Il caso è al vaglio del ministero della Giustizia e il sottosegretario Andrea Delmastro ha chiarito: «Cercheremo, per quanto possibile, di fare approfondimenti su una scelta che non dipende certamente dall'Amministrazione penitenziaria. Cercheremo capire come sia potuto accadere che venisse giudicato, evidentemente, non pericoloso socialmente».
Dietro al clamore di un caso così drammatico, però, si nasconde un quadro che pochi conoscono: ogni anno decine di migliaia di detenuti ottengono permessi premio o vivono in regime di semilibertà senza mai rendersi protagonisti di episodi criminali. Nel 2024, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha concesso 35.282 permessi premio: più di novanta al giorno, in media, distribuiti in tutte le regioni d’Italia, dalla Valle d’Aosta (50) alla Lombardia (14.840), fino alla Sicilia (2.205).
La semilibertà, altra misura fondamentale nel percorso di reinserimento, secondo gli ultimi dati disponibili riguardava, al 30 aprile 2025, ben 1.340 persone, pari al 2,7% dei soggetti seguiti dagli Uffici di Esecuzione Penale Esterna (Uepe), su un totale di quasi 50.000 persone in misure alternative. Di queste, 424 erano nuovi incarichi emessi nel corso dei primi quattro mesi dell’anno, segno che – al netto delle emergenze che catturano l’attenzione dei media – la risposta del sistema penitenziario resta rivolta al reinserimento, e non esclusivamente alla detenzione in cella.
Il percorso è tutt’altro che scontato: ogni richiesta di permesso o di semilibertà passa al vaglio del magistrato di sorveglianza, che valuta il profilo di rischio, il comportamento in carcere e i legami del detenuto con la società. Il fine, sancito dalla legge 354/1975, è “rieducativo”: anziché un’abitudine all’isolamento, il detenuto prova a riconquistare gradualmente autonomia, responsabilità e reputazione nel mondo esterno. Purtroppo, nei grandi numeri, possono accadere errori di valutazione.
Il rischio zero non esiste in alcun ambito. Ma non per questo bisogna rinunciare. Basti pensare, solo a titolo esemplificativo, agli errori mortali che accadono durante le operazioni chirurgiche in ospedale. Accadono. Ma non per questo si smette di operare e salvare vite umane.
Semilibertà e permessi premio non sono una concessione di gentilezza, ma un vero e proprio banco di prova: la legge sull’ordinamento penitenziario li inserisce come alternativa alla detenzione piena, con un chiaro scopo rieducativo. Mentre il carcere tende a isolare chi lo sconta, privandolo dell’idea stessa di un progetto di vita, aprire qualche ora al giorno o qualche giorno al mese significa testare la capacità di autonomia e di rispetto delle regole fuori dalle mura.
Gli studi confermano che chi affronta la pena in regime di semilibertà o con permessi premio ha minori probabilità di tornare a delinquere rispetto a chi rimane chiuso fra quattro mura. Mantenere un legame con la famiglia, provare a rimettersi in gioco sul lavoro, ricevere un sostegno mirato dai servizi sociali: tutto questo costruisce percorsi di fiducia che difficilmente nascono dietro le sbarre. Nel marzo 2025, la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità della norma che prevedeva una preclusione biennale alla concessione di permessi premio per i detenuti imputati o condannati per reati commessi durante l'esecuzione della pena. Questa decisione rafforza l'importanza di valutare caso per caso, evitando automatismi che potrebbero ostacolare il percorso rieducativo del detenuto.
Chiedersi se “buttar via” questi benefici dopo un episodio come quello di De Maria sarebbe una reazione d’istinto, non di ragione. Perché dietro ai numeri – migliaia di permessi, oltre mille semilibertà attive – ci sono vite che, una volta rimessi in libertà controllata, non infrangono più la legge. Negare a tutti i detenuti queste opportunità significherebbe rinunciare a quei segnali di fiducia che, quasi sempre, funzionano. I fatti di cronaca nera colpiscono e scuotono, ma non possono cancellare l’esperienza positiva di chi, dopo aver scontato parte della pena, è riuscito a riannodare i fili del proprio futuro. È lì che andrebbe puntata l’attenzione: non sull’eccezione, ma sulla regola che, ogni giorno, dimostra quanto il sistema penitenziario italiano sappia investire non solo in sicurezza, ma anche in speranza.