di Francesco Greco (consigliere Cnf) È paradossale leggere o sentir dire che in Italia la giustizia va male perché ci sono troppi avvocati che provocano un ingolfamento del sistema giudiziario. È come dire che la sanità va male perché ci sono troppi malati. E se è vero che il numero dei malati influisce sull’efficienza di un ospedale, è altrettanto vero che in questi casi si interviene sulle strutture sanitarie e sul personale medico e paramedico, aumentandone le dotazioni organiche e migliorando le strutture. Dire che ci sono troppo avvocati che si occupano della tutela dei diritti è come dire che ci sono troppi malati. Fatta questa premessa e dando atto che in Italia il numero degli avvocati è superiore a quello di altri stati europei - circostanza di cui per primi noi avvocati non gioiamo - occorre considerare che l’incremento negli ultimi 20 anni del numero degli iscritti agli albi è stato determinato dall’ingresso di giovani affascinati dalla toga e dal ruolo che la nostra professione svolge, di tutela dei diritti fondamentali. L’avvocatura ha accolto questi giovani, assicurando loro un futuro - a fronte dell’incapacità dell’istituzioni del Paese di offrire altri sbocchi occupazionali - nell’ambito di una professione fondamentale in uno Stato di diritto, oserei dire posta a presidio della democrazia. Dunque, sentirci oggi rinfacciare che la giustizia non funziona a causa degli avvocati è veramente paradossale per non dire provocatorio; quando invece i mali della giustizia vanno ricercati altrove: nelle strutture carenti (vedi l’edilizia giudiziaria, che oggi è un grande problema), negli insufficienti organici dei magistrati - molti dei quali fuori ruolo e distaccati in vari ministeri - e del personale amministrativo, nella inesistenza, soprattutto, di un sistema che si occupi di garantire l’efficienza del comparto giudiziario. A mio avviso, il tema della verifica dell’efficienza del comparto giudiziario è il problema più grande. L’inesistenza di organi deputati a valutare efficienza, o meglio l’inefficienza, della macchina giudiziaria, dell’esito dei processi, del rispetto dei principi del giusto processo è un grande vulnus. Nessuno risponde se un processo, dopo anni ed anni di indagini, di udienze, di risorse finanziare impegnate finisce con un pugno di mosche. Tutto è affidato solo al gravame dei provvedimenti, mentre nessuno risponde dell’inefficienza, che invece costituisce, in qualunque settore, il principale indice di valutazione. Basti dire che in questo anno e mezzo in cui l’attività giudiziaria è rimasta sostanzialmente bloccata per la pandemia, in cui udienze non se ne sono quasi più svolte, ci si sarebbe aspettato un recupero dell’arretrato accumulatosi, che invece sembra addirittura aumentato per la serie di rinvii su rinvii dei processi disposti d’ufficio. Ma di ciò nessuno si occupa. L’efficienza, sembra, non interessare ad alcuno: non ai i capi degli uffici giudiziari, non al CSM (che ha promulgato circolari per cui le centinaia di magistrati che fanno parte dei consigli giudiziari di tutte le Corti Appello d’Italia beneficiano di un esonero, dal carico di lavoro, che può arrivare al 40%), non agli uffici ministeriali né al Governo. L’inefficienza del sistema giustizia rimane a carico dei cittadini. Non si può non ricordare, peraltro, come negli ultimi 20 anni siano state adottate tante riforme rivolte a sgravare la magistratura del carico giudiziario che, tuttavia, di fatto, hanno solo ridotto le garanzie costituzionali del diritto di difesa. A partire dal 1997, quando per smaltire l’arretrato civile venne approvata la legge n. 276 sulle così dette “sezioni stralcio”, con la cui entrata in vigore (l’anno successivo) le cause all’epoca esistenti sui ruoli dei giudici togati furono tutte riassegnate a giudici onorari, reclutati in quella occasione. La magistratura togata fu esonerata dal peso dell’arretrato e ripartì da zero. E mentre le sezioni stralcio, costituite, come detto, solo da giudici onorari in 5 o 6 anni esaurirono l’arretrato, le nuove cause, affidate alla magistratura ordinaria, ben presto si accumularono di nuovo. Nel rito civile sono innumerevoli le riforme che hanno previsto, a carico delle parti, preclusioni, limitazioni alla produzione di nuove prove in grado di appello, condizioni di procedibilità dell’azione, riduzioni dei termini per il deposito delle difese. Nessuna di queste riforme, invece, ha previsto termini perentori per il deposito delle sentenze da parte dei giudici. Nel processo amministrativo è stata persino introdotta la “perenzione del ricorso”, che comporta che se il tribunale amministrativo non fissa l’udienza entro 5 anni da quando il ricorso è stato presentato il procedimento si estingue, a meno che la parte non dichiari, con atto formale, di volere ancora la sentenza. Nel processo penale, per evitare la prescrizione dei reati, è stata abolita la prescrizione, quando invece è ormai accertato che il 60 – 70 % del periodo prescrizionale decorre durante le indagini, quando il processo non è nemmeno iniziato. L’effetto, inevitabile, sarà l’allungamento dei processi. In cassazione, si è raggiunto il culmine, assistendo all’introduzione, da parte della stessa Corte di Cassazione, del principio di “autosufficienza” del ricorso. Concetto assolutamente indefinito nel codice di procedura, grazie al quale la Cassazione dichiara inammissibili la stragrande maggioranza dei ricorsi, senza doversi preoccupare di esaminarne il merito. Smettiamola, dunque, di attribuire agli avvocati le colpe degli altri: riformiamo la giustizia, partendo dalle strutture e dagli organici dei giudici e del personale amministrativo; facciamo rientrare nei tribunali, a scrivere sentenze, le centinaia di magistrati distaccati nei ministeri e nei vari uffici; introduciamo organi che verifichino l’efficienza degli uffici giudiziari, monitorando il numero di procedimenti che vengono annullati dopo anni. Noi avvocati siamo pronti a collaborare e pretendiamo, per i nostri assistiti, un giusto processo, che coniughi celerità ed efficienza.