Caro Direttore,

In questi giorni, anche sul Suo giornale, è vivo il dibattito sulla riforma della Giustizia civile. Finalmente! Per anni in questo Paese si è parlato quasi esclusivamente di quella penale. Per quel poco che ho capito, mi sembra che l’obiettivo sia dimezzare i tempi del processo, nella convinzione che l’ennesima riforma del codice di procedura risolva, più o meno magicamente, il problema. Circa trent’anni fa, ero ancora praticante, fui convocato nella stanza del dominus del mio studio. All’epoca ero il “ragazzo de bottega der grande avvocatone”, come mi avrebbe definito Aldo Fabrizi in un grandissimo film di Ettore Scola.

“Abbiamo, cioè ho vinto la causa Romallo” alzò gli occhi dalla scrivania. Aveva oltre settant’anni, ma ancora lo sguardo sveglio del quarantenne paraculo. Mi allungò una cinquantina di pagine di sentenza che iniziai subito a sfogliare.

“Siccome lei, Andrea - mi dava del lei, ma mi chiamava col nome di battesimo - ha scritto gli ultimi atti di questa annosa questione e per incidens li ha anche scritti bene, volevo farle i miei complimenti. Perché la sentenza – io stavo scorrendo con gli occhi le pagine - che leggerà dopo…” “Scusi” smisi di leggere, intercettando lo sguardo del dominus.

“… dicevo, la sentenza è davvero importante, un precedente giurisprudenziale che meriterebbe anche una nota sul Foro Italiano sia per le pregiudiziali di rito che per le questioni di merito: insomma una vera e propria sentenza quadro”.

“Una sentenza quadro – annuii orgoglioso – per i principi che afferma?” “No – pausa teatrale – è una sentenza quadro perché Romallo se la può incorniciare e appendere al muro. Dopo sette anni di processo ormai non ci fa più niente. I buoi sono scappati, Andrea”.

Aveva ragione. Ritardare giustizia vuol dire denegare giustizia. La sentenza arriva e tu non puoi più eseguirla perché “ i buoi sono scappati” oppure perché sarebbe troppo costoso farlo rispetto ai benefici che il tuo cliente eventualmente otterrebbe. Eventualmente perché anche il processo di esecuzione non è una passeggiata e dura troppo.

Ho impiegato i successivi trent’anni di professione (e di lettura di sentenze quadro) per capire che il processo si chiama così perché procede. Proprio nel senso fisico del termine: cammina. È uno strano essere vivente che, ad ogni udienza, può prendere una direzione diversa, anche tornare indietro, tipo gioco dell’oca. Ma sempre lentamente. E finora non c’è stata una riforma del codice che lo abbia in alcun modo accelerato, curandone le patologie o, perlomeno, indicandogli la strada più breve.

Le ragioni del fallimento? Le riforme sono scritte da persone che non hanno mai messo piede in un’aula di giustizia, i magistrati sono pochi e mal organizzati (né hanno voglia di farsi organizzare meglio, in nome di una singolare interpretazione del principio di indipendenza), gli avvocati sono troppi e mal pagati (in nome di una riforma ideologica che ha ulteriormente impoverito la professione, creando una specie di avvocatura “à la carte” che per sopravvivere prova a fare tutto, spesso male).

La sensazione di chi opera nei tribunali è che della Giustizia non interessi niente a nessuno (a parte al poveraccio che ha subito, o crede di aver subito, un torto). Perché una Giustizia che malfunziona favorisce chi ha potere, gli libera definitivamente le mani! E non sto esclusivamente parlando del Potere, quanto della parte contrattualmente più forte in quella singola controversia.

Ecco, forse, dovremmo partire da questa ultima considerazione e venire al secondo corno del dilemma. La lentezza del processo è una patologia, ma non è la sola. C’è anche una questione di cui si parla meno: la scarsa qualità della Giustizia. Sempre l’avvocatone di cui sopra diceva che “ quando all’ignoranza dell’avvocato si somma quella del giudice, succedono cose inenarrabili”.

Quante sentenze deludenti leggiamo? Quante volte facciamo fatica a spiegare al cliente perché la sua domanda di giustizia non è stata doverosamente esaminata? E qui il problema sta a monte, nel sistema di reclutamento dei magistrati per il quale un neolaureato, che ha la “perversa” ambizione di passare la vita a giudicare gli altri, si chiude in casa per tre/quattro anni di studio matto e disperatissimo. Spesso si iscrive a costosi corsi tenuti da magistrati o ex magistrati - che hanno, o vengono loro attribuite, capacità divinatorie sulle tracce dei compiti - e impara una serie di nozioni mastodontica e piuttosto inutile. Sostiene un esame esclusivamente teorico e, se lo supera, viene sbattuto dall’altra parte della scrivania a decidere della vita e dei soldi di cittadini e imprese.

Senza avere nessuna esperienza del mondo che non sia lo studio, senza aver mai messo piede prima in Tribunale, senza essere aiutato dai colleghi o dalla struttura. Ragazzi di nemmeno trent’anni che, da soli (la “Solitudine del Giudice Monocratico” sarebbe un bel titolo per un romanzo), decidono di licenziamenti di persone di cinquanta che non saranno mai più reinserite nel mondo del lavoro. E devono interpretare un ginepraio di norme scritte male, che si affastellano l’una sull’altra in assenza di qualsivoglia coerenza sistematica.

Ed eccola un’altra patologia di cui mi sembra non si discuta: il nostro ordinamento ha troppe fonti - così su due piedi, dai regolamenti UE all’ultimo regolamento municipale, ne ho contate sette - troppe norme e troppe interpretazioni, spesso contraddittorie sempre confuse, persino difficili da scovare (nascoste nelle pieghe dell’ultimo omnibus che ha un titolo del tutto eccentrico rispetto alla questione che stai affrontando).

In conclusione: pensiamo davvero che questa ulteriore, ultima (solo in senso cronologico) riforma del codice di procedura civile possa, da sola, regalarci una Giustizia più veloce che sia anche più Giusta? Perché la velocità in sé non risolve nulla se serve solo ad andare a sbattere prima contro un muro di ingiustizia.

Non mi permetto di dare consigli nel merito, chi si occupa istituzionalmente di questi problemi è in grado di sbagliare da solo senza il mio aiuto. Ma, forse, sarebbe di una qualche utilità partire da una domanda ingenua e complicata allo stesso tempo: a chi giova una Giustizia che non funziona?

Con i più cordiali saluti, 

Andrea Armati