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L'avvocata Ebru Timtik morta dopo 238 giorni di digiuno
La battaglia di Ebru Timtik è durata 238 giorni. Giorni in cui ha scelto volontariamente di non mangiare, utilizzando il proprio corpo come ultima arma di resistenza contro uno Stato che della giustizia aveva ormai fatto uno strumento di intimidazione. È morta il 27 agosto 2020, a 42 anni, dopo mesi di sciopero della fame iniziato insieme al collega Aytaç Ünsal, per denunciare l’assenza di un processo equo e l’uso politico della giustizia in Turchia.
Entrambi facevano parte dell’associazione degli avvocati progressisti (Chd) e furono arrestati insieme ad altri 18 colleghi. Le accuse si fondavano su presunti legami con il Dhkp-C, un partito rivoluzionario messo fuori legge, e su una singola testimonianza contraddittoria. A rendere ancora più assurda la vicenda, l'uso di criteri come la frequenza dei colloqui con le famiglie dei clienti o il suggerimento di non rispondere agli interrogatori, trasformati in prova d’accusa.
Il 14 agosto 2020, nonostante condizioni di salute gravissime e una certificazione di non idoneità alla detenzione da parte dell’istituto di medicina legale, la Corte costituzionale turca respinse la richiesta di scarcerazione.
Secondo i giudici non vi erano “reperti disponibili” che dimostrassero “un pericolo critico per la vita o l’integrità morale e materiale” dei due imputati. Poco dopo, Timtik e Ünsal trasformarono lo sciopero della fame in un “digiuno mortale”, nel giorno simbolico del 5 aprile, la giornata degli avvocati in Turchia. Ebru Timtik è stata la quarta vittima di quel processo politico, che ha visto morire – sempre per scioperi della fame – anche Helin Bölek, solista dei Grup Yorum (digiuno di 288 giorni), il bassista Ibrahim Gökçek (323 giorni), e Mustafa Koçak (296 giorni), prigioniero politico. Tutti accusati in base alle stesse leggi antiterrorismo. Tutti colpiti da una repressione che ha colpito duramente il dissenso, l’opposizione, la libertà di espressione.
Secondo Sezgin Tanrikulu, deputato del Partito popolare repubblicano (Chp), quella di Timtik fu “una morte annunciata”. “Fino a quando assisteremo a queste morti?”, disse in diretta su Halk Tv. Le parole più dure furono quelle degli stessi avvocati. “Non l'hanno sentita gridare per mesi chiedendo un processo equo – dichiarò il presidente dell’ordine di Ankara, Erinç Sagkan –. Chi ha fatto orecchie da mercante ha massacrato la giustizia e la coscienza”. Il presidente dell’ordine di Antalya, Polat Balkan, parlò apertamente di “omicidio giudiziario”, mentre Bilgin Yesilbogaz, da Mersin, denunciò che “l’ingiustizia uccide”.
La repressione colpì anche la sorella di Ebru, Barkin Timtik, condannata a oltre 20 anni, e Selçuk Kozagaçli, presidente del Chd, a 13 anni. La loro colpa? Avere difeso famiglie sfrattate per far posto a speculazioni edilizie, donne aggredite per non portare il velo, oppositori politici del regime di Erdogan. A essere incriminato fu persino il suggerimento ai clienti di avvalersi della facoltà di non rispondere, trasformato in “indice di colpevolezza” sulla base di una statistica.
Questa persecuzione affonda le radici nelle epurazioni seguite al tentato colpo di Stato del 2016. Con la legge antiterrorismo del 25 luglio 2018, il governo ha esteso il proprio controllo al sistema giudiziario, arrivando a istituire un organismo di sorveglianza con accesso diretto a tutti gli ordini forensi. La fusione tra potere esecutivo e potere giudiziario è diventata così sistemica e legalizzata.
I 20 avvocati arrestati con Timtik furono incarcerati due giorni prima dell’inizio del processo. Per sei mesi non poterono neppure conoscere i capi di imputazione. Le accuse sostenevano che l’associazione Chd fosse una branca del partito rivoluzionario Dhkp-C, e bastò una testimonianza contraddittoria per ottenere decine di condanne. Un processo simbolico, volto a terrorizzare un’intera categoria professionale: quella degli avvocati difensori dei diritti.
Eppure, nemmeno le carceri-lager del “sultano” sono riuscite a zittire la protesta. Dalla prigione, Aytaç Ünsal scrisse: «Abbiamo fatto della nostra vita uno strumento di difesa. Difendiamo le nostre vite tra le macerie. Facciamo la guardia alle prove sotto il cemento. Seguiremo le cause che difenderanno le vite che costruiremo insieme alla nostra gente».
Nel 2025, cinque anni dopo la morte di Ebru Timtik, nulla è cambiato. Aytaç Ünsal è di nuovo in carcere. Nessuno degli artefici di quella campagna repressiva ha pagato il prezzo politico o giudiziario. Ma il nome di Ebru Timtik resta impresso nella memoria collettiva, non solo in Turchia ma a livello internazionale. La sua battaglia, come quella di tanti morti nel silenzio, è diventata simbolo di una resistenza civile che continua.