Come può un avvocato, nell’esercizio del ministero della difesa, dissociarsi dal proprio assistito nei confronti del quale sta profondendo ogni sforzo al fine di difenderlo al meglio? Questo interrogativo sta arrovellando Enrico Visciano e Alfredo Partexano del Foro di Milano, i quali hanno deciso di raccontare una vicenda che li ha riguardati come professionisti. Tutto nasce da un complesso contenzioso civile, sorto alcuni anni fa, riguardante il pagamento di una quietanza assicurativa a seguito di un incidente stradale mortale. Dal civile si sono poi avuti dei risvolti penali, con un procedimento per calunnia davanti al Tribunale di Monza, nonostante una archiviazione originaria, nei confronti dell’assistita di Visciano e Partexano. Nelle fasi conclusive del processo, con gli interventi dei difensori, il primo colpo di scena: il giudice, a un certo punto, nel corso dell’arringa difensiva, si incammina verso l’uscita per abbandonare l’aula di udienza. «Durante le arringhe davanti al Tribunale di Monza – dicono al Dubbio gli avvocati Visciano e Partexano – ci siamo imbattuti in molteplici interruzioni, nonostante i richiami di noi difensori rispetto all’impossibilità assoluta di interrompere un’arringa finale quale momento sacramentale del rito. Anche l’imputato, non dimentichiamolo mai, ha dei diritti. Le interruzioni erano messe in atto sia dal difensore di parte civile sia dal giudice, che richiamammo affinché tornasse al proprio posto, nel momento in cui decise di allontanarsi dall’aula con i faldoni in mano. Solo con le nostre proteste rivolte al giudice siamo riusciti a concludere le arringhe». Con la sentenza, l’altro colpo di scena. L’assistita di Visciano e Partexano viene condannata a quattro anni di reclusione, ma a lasciare di sasso gli avvocati sono le parole usate dal magistrato in sentenza. Un passaggio che amareggia i due legali anche per la considerazione complessiva dell’avvocatura. «La lettura della sentenza di condanna – evidenziano –, in particolare a pagina 21, portava noi difensori a sentirci colpiti non solo nell’intimo della nostra professionalità ma anche come categoria. Si era deciso di trasferire atti e causa alla Procura anche per le difese, vale a dire nei nostri diretti confronti, per la sola colpa di non esserci dissociati dalle dichiarazioni della nostra cliente». Dunque, a detta del giudice, gli avvocati che non si dissociano dalle dichiarazioni del proprio assistito e che le fanno proprie nelle arringhe, seppur con «toni solo apparentemente più pacati ed urbani», rischiano quanto la persona difesa. Un’assimilazione singolare. Un assunto che ha lasciato molto perplessi Visciano e Partexano, senza però scoraggiarli. Anzi. Uno sprone ad andare fino in fondo e presentare appello. A Milano, il terzo colpo di scena. «Il nostro stupore – commentano – fu ancora maggiore nel leggere l’atto del Procuratore generale che citava il passaggio della sentenza del Tribunale di Monza, rimarcandolo alla prima riga della propria requisitoria e delle proprie conclusioni scritte, come se fosse l’aspetto più importante del processo». Una sottolineatura che ha indotto Visciano e Partexano a richiedere la trattazione orale della causa. «Abbiamo deciso – aggiungono – di far risaltare il passaggio a gran voce durante le arringhe in appello e fare menzione del fatto che eravamo stati troppo eleganti nel non dare la necessaria importanza a un così grave fatto. Era giunto il momento di approfondire e sottolineare come i rapporti tra magistratura e avvocatura siano da considerarsi assai compromessi, se davvero può esistere un protocollo secondo cui ogni difensore, all’atto di iniziare la propria arringa, quale momento sacramentale nel rito, è costretto ad alzarsi in piedi, alzare la mano e dissociarsi dall’innocenza del proprio assistito». A questo punto Enrico Visciano si infervora e descrive i momenti della sua arringa in Corte d’Appello. «Mentre parlavo – afferma – ho voluto battere la mano sulla toga, dalla parte della spalla destra, facendo rimbalzare verso l’alto i cordoni dorati per ben tre volte. Un gesto ben preciso, atto ad indicare l’inviolabilità della toga, di ciò che è molto di più di un mero e semplice servizio. Svolgiamo un ruolo, costituzionalmente garantito, che non può risultar oggetto, da parte di nessuno, di scherno, di interruzioni, di dissacrazioni, di ipotesi di reato nel momento stesso della necessità difensiva del cliente, senza dimenticare la storia personale dei protagonisti coinvolti. Per questo motivo mi rivolsi in udienza al Procuratore generale, chiedendogli di guardarmi negli occhi e di rispondermi, se poteva, proprio lì, davanti a tutti gli astanti, sulla tipologia di reato che avremmo potuto commettere noi avvocati o sul già ricordato trasferimento degli atti alla Procura della Repubblica disposto nei nostri confronti da parte del giudice Colella. Trasferimento rimarcato anche da parte dello stesso Procuratore generale». Quanto successo pone l’accento sullo svilimento al quale può andare incontro alcune volte il ruolo del difensore. In questo contesto si inserisce il tema del pericolo di spersonalizzazione della difesa sul quale tante volte si sono soffermati importanti esponenti dell’avvocatura. Le parole del presidente del Coa di Milano Vinicio Nardo (si veda Il Dubbio del 12 gennaio 2022) sono un riferimento significativo: «L’avvocato deve seguire le sorti del cliente. Deve essere la fotocopia del cliente, non del magistrato. Il magistrato è un funzionario di Stato e risponde allo Stato. L’avvocato è un libero professionista e risponde al cliente». Per la cronaca è opportuno segnalare che la Corte d’Appello ha comunque assolto la cliente di Visciano e Partexano. I giudici hanno accolto le domande sulla prescrizione e revocato le statuizioni civili, ossia il danno pari quasi a 80mila euro concesso alla parte civile in primo grado. «Il che – concludono i legali – non ci pare poco, dopo una condanna in primo grado a quattro anni di reclusione».