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Non sono gli auguri di Pasqua. L’Ordine degli avvocati mi scrive che c’è una nuova norma deontologica (l’articolo 25 bis del codice forense). Devo stare attento: non potrò più vendere le mie prestazioni professionali al prezzo che voglio. Dipende dal cliente: se è “forte” (banche, assicurazioni, grandi imprese, amministrazioni) dovrò vendergli quel che faccio a un prezzo che sia giusto, equo e proporzionato, e che sia in linea con i parametri forensi vigenti. Altrimenti, sarò censurato.
“È l’equo compenso, bellezza!”, per dirla con Humphrey Bogart. È la legge sull’equo compenso che definisce questa nuova norma deontologica e che impone di recepirla tal quale in tutte le professioni. Quanto alla mia, di professione, mi avvertono appunto che sarò sanzionato se – come avvocato – non mi farò pagare equamente. Per l’entrata in vigore resta da attendere la pubblicazione in Gazzetta e poi altri sessanta giorni, ma la regola è quella.
Il Cnf – nella relazione di accompagnamento alla nuova norma – ci scherza un po’ su: “Nel caso di specie, l’autonomia deontologica è stata declinata a rime praticamente obbligate”. A decidere, cioè, è stata la legge. Ma, ironie a parte, si avverte che nel meccanismo qualcosa non gira.
Non si tratta delle questioni specifiche, che pure non mancano. Ad esempio: la formulazione della nuova norma non distingue, e può far pensare che l’avvocato sia tenuto ad applicare l’equo compenso a tutti i suoi clienti. Ma è solo un’imprecisione: l’equo compenso vale per i clienti “forti”. E non si può certo estenderlo per via deontologica alle ipotesi in cui la legge non lo prevede.
Oppure: la nuova norma prevede anche un altro autonomo illecito, che consiste nel non aver avvertito per iscritto il cliente che il corrispettivo pattuito doveva rispettare l’equo compenso. Se ciò che conta è che l’abbia poi rispettato, sfugge la logica di una simile previsione; che però difficilmente produrrà grandi quantità di procedimenti disciplinari.
Delicata è la questione del rapporto tra compenso “giusto” e compenso conforme ai parametri. Ben può accadere che un compenso rispetti i minimi, ma non sia “giusto” nel caso concreto. Tuttavia, realisticamente, è da pensare che le questioni disciplinari si concentreranno sui casi di “sforamento” dei minimi: è lì che di sicuro si esce dalla zona del compenso equo.
Infine, ancor più delicata è la compatibilità con il diritto dell’Unione europea, contrario alla fissazione di tariffe minime da parte delle associazioni di professionisti: così da ultimo la Cgue 25.1.2024 per gli avvocati bulgari. Ma – a parte il diverso modo in cui nel nostro ordinamento vengono stabiliti i valori – la disciplina dell’equo compenso è un’altra cosa: non introduce delle tariffe, ma riguarda i corrispettivi in casi di possibile abuso di posizione dominante.
Però – ripeto – non sono gli specifici profili. E non è neanche la questione di fondo, di per sé irrisolvibile: come si fa a stabilire se un compenso è giusto? Perché, più che un compenso giusto, c’è un “range” di compensi più o meno giusti e dai confini sfumati. La contraddizione, invece, riguarda il sistema. La legge sull’equo compenso è fatta per dare tutela al contraente “debole”. E dunque se il compenso pattuito non è equo, un avvocato può agire perché un giudice ne rilevi la nullità e ridetermini il corrispettivo. Ma, se agisce, attesta un proprio illecito deontologico. Diventa dunque improbabile che agisca, e comunque si produce un cortocircuito.
Le due cose – tutela giudiziaria e sanzione deontologica per violazione dell’equo compenso – insieme non stanno. D’altro canto, non funzionano neppure da sole. Se non vi fosse la tutela giudiziaria, l’equo compenso sarebbe solo un’idea astratta, priva di conseguenze nel caso di violazione: ben difficilmente la sola norma deontologica basterebbe per resistere alle pressioni dei contraenti “forti”. E se invece vi fosse solo la tutela giudiziaria ma non la regola deontologica, l’avvocato potrebbe convenire con il cliente quel che il cliente vuole – così acquisendolo – con la consapevolezza di poter poi far causa per pretendere un compenso equo (ma che il cliente non ha né avrebbe accettato).
Dunque, insieme non stanno, ma è meglio che ci siano entrambe; e la contraddittorietà del sistema è forse un prezzo da accettare. Però con consapevolezza. L’obiettivo vero non è quello che gli avvocati si rivolgano a un giudice contro pattuizioni inique, ma di evitare che queste ultime vi siano. Più in generale, è quello di avere un’avvocatura in grado di garantire in modo compatto la qualità e la dignità della funzione che esercita. In prospettiva, dunque, ciò che più conta è l’osservanza della regola deontologica perché è questa ad avere la prevalenza.
Non c’è da stupirsi. Anche perché – per gli avvocati – tutto ciò è espressione di un valore più ampio, preesistente all’equo compenso. Quello della dignità della professione, che richiede anche la proporzione tra l’attività e il suo compenso, senza squilibri né al rialzo né al ribasso. È l’articolo 29 del codice deontologico: “L’avvocato non deve richiedere compensi o acconti manifestamente sproporzionati all’attività svolta o da svolgere”. Perché l’attività di avvocato può essere sì riguardata come un’attività di impresa. Ma è prima di tutto una funzione al servizio di valori costituzionali (a cominciare dal diritto di difesa). E ogni regolamentazione anche degli aspetti economici dev’essere considerata per gli effetti che può avere sulla rispondenza dell’attività legale alla sua funzione.
L’equo compenso, è vero, riguarda tutte le professioni. Ma – per gli incarichi agli avvocati – si inserisce in una logica di valori del tutto a sé.