Michele Vietti. Giovanni Legnini. David Ermini. Sono gli ultimi tre vicepresidenti del Csm. Nomi espressi dalla politica. E che hanno saputo trovare un equilibrio nel rapporto fra componente laica e magistratura. È chiaro che l’attuale centrodestra ha figure assolutamente all’altezza del compito. Ma parte da una condizione inconsueta: è abbastanza unito su alcune riforme “di rottura”. Innanzitutto sulla separazione delle carriere. Che per qualche voce autorevole della coalizione appena uscita vincitrice dalle urne, vedi Carlo Nordio, potrebbe declinarsi anche in forme “estreme”, per esempio con l’eleggibilità dei pubblici ministeri. Non è tramontata l’idea, comune a Forza Italia, FdI e Lega, di superare l’ultima riforma del Csm, e di introdurre l’elezione dei togati mediante “sorteggio temperato”, cioè la selezione random dei candidabili tra i quali verrebbero poi eletti i futuri consiglieri. Ecco: immaginate un vicepresidente del Csm, tanto per fare un esempio, che fosse scelto fra i laici indicati dal centrodestra: sarebbe in una posizione molto, ma molto diversa da quella in cui si sono trovati Vietti, Legnini ed Ermini. Sarebbe un vertice in una posizione di conflitto con le toghe Addirittura con gli altri due componenti del Comitato di presidenza di Palazzo dei Marescialli, di cui fanno parte anche il primo presidente e il pg della Cassazione. Cariche attualmente ricoperte da Pietro Curzio, considerato vicino alla magistratura progressista di Area e di Md, e Luigi Salvato, di Unicost. Tutti gruppi dell’Anm che non vogliono sentir parlare di carriere separate né di sorteggio. Sarebbe quella che i francesi chiamano coabitazione, quando Capo dello Stato e Assemblea non sono omogenei politicamente. Naturalmente il nodo non è solo la vicepresidenza del Csm. Sul cui “colore politico” al momento, tutte le congetture sono possibili. Incluso lo scenario di una componente togata che decida di votare, compatta, per un laico di minoranza, espresso dal Pd (si era parlato di Anna Rossomando) o dal Movimento 5 Stelle (che non indicherà ex parlamentari). Certo, il nodo “cohabitation” si scioglierebbe. Ma si creerebbe comunque una tensione fortissima fra la nuova maggioranza di governo e l’ordine giudiziario. E così, dopo una campagna elettorale in cui si è parlato poco di giustizia, il conflitto fra partiti e magistrati torna all’orizzonte. Inatteso. O quanto meno sottovalutato. Naturalmente la via d’uscita ci sarebbe: il centrodestra dovrebbe accantonare i propri propositi riformatori, rimettere nel solito cassetto la separazione delle carriere. Ma è una soluzione credibile? Può, un’alleanza che proprio sulla giustizia trova uno dei più tranquillizzanti punti di coesione, censurarsi pur di non sommare, alle altre paurose incognite che pesano sul futuro, la grana di un conflitto con la magistratura? Molto potrà dipendere da Giorgia Meloni. Non è da escludere che la probabile futura presidente del Consiglio eviti di calcare troppo la mano sulle contrapposizioni con le toghe. Non è la sua priorità, l’argomento non è mai stato al centro della sua agenda. Ma la dinamica che sembra profilarsi non è facile da disinnescare. Anche per un motivo che riguarda i magistrati e che non può essere sottovalutato: una legislatura di conflitto con la maggioranza di governo aiuterebbe le toghe a ritrovare compattezza, e a far scivolare almeno un po’ nell’oblio gli scandali degli anni passati. Come non essere tentati da una simile opportunità? Di certo, i segnali che arrivano dal gruppo della magistratura che più di altri sembra idealmente lontano dal centrodestra, la progressista “Area”, fa capire come tra i togati non si abbia intenzione di fare sconti ala politica. «Questo quadro generale rafforza il nostro impegno affinché si garantisca la conservazione del modello costituzionale di giurisdizione e magistratura», si legge nel comunicato diffuso due giorni fa dalla componente “di sinistra”. Può voler dire anche schierarsi apertamente contro riforme dell’ordinamento giudiziario che richiederebbero modifiche della Carta, quali appunto la separazione delle carriere e il sorteggio. C’è un paradigma che incombe: quello dei lunghi anni di conflitto fra l’allora premier Silvio Berlusconi e l’Anm. Un’epopea distruttiva, in cui il centrosinistra dell’epoca giocò di sponda con le toghe. Quello schema non può riproporsi integralmente, è chiaro. Non ci sono più di mezzo le vicende giudiziarie personali di un leader. Ma seppur in forma di surrogato, il contrasto fra la destra e i magistrati può riemergere. E rendere più complicato del previsto anche sulla giustizia, il cammino di un futuro governo Meloni.