I decreti attuativi sulla riforma del processo penale neutralizzano l’improcedibilità. A denunciarlo è il laico del Csm Alessio Lanzi, che mercoledì ha proposto due emendamenti - bocciati dal plenum - per modificare il parere del Csm sul testo approvato dal Consiglio dei ministri il 4 agosto scorso.

Un parere che enfatizza il rapporto tra inammissibilità e improcedibilità, rifacendosi ad un orientamento della Cassazione ( Sez. VII, n. 43883/ 2021) secondo il quale, come per la prescrizione, un ricorso inammissibile preclude la possibilità di dichiarare l'improcedibilità. «Applicando questa regola all’inammissibilità in appello - evidenzia Lanzi al Dubbio -, secondo il parere approvato dal Csm, si supplirà alla “indiscriminata” operatività dell’improcedibilità. Insomma, un utile rimedio all’allarme che suscita tale tematica». Lanzi aveva chiesto di modificare la relazione laddove si approva «incondizionatamente» la prospettiva di inserire l’inammissibilità dell’appello se fondato su motivi aspecifici, che di fatto, secondo Lanzi, «fa perdere all’imputato condannato un grado di merito».

E ciò in contrasto con il Patto internazionale sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite, ratificato in Italia il 15 settembre 1978, secondo il quale «ogni individuo condannato per un reato ha diritto a che l’accertamento della sua colpevolezza e la condanna siano riesaminati da un tribunale di seconda istanza in conformità della legge». Si tratta di una norma intermedia, quindi prevalente sulla norma ordinaria. «Invece così viene totalmente disatteso - evidenzia Lanzi -. Così facendo l’appello non sarà più di gravame, quindi con un riesame della posizione del condannato, ma diventa un ricorso, come in Cassazione, perché si basa sull’accertamento dei motivi. La filosofia dell’appello, però, è una nuova cognizione del giudice su tutto quello che è successo ed ha portato alla condanna».

Ma non solo. Nel parere viene criticata l’introduzione di un limite alle impugnazioni del pm su alcune sentenze, relativamente a reati minori, sulla base del principio della parità delle parti del processo. Ciò sulla base di quanto enunciato dalla Corte costituzionale nella sentenza 26/ 2007, che ha dichiarato illegittima la legge Pecorella in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento. «Quella decisione - sottolinea Lanzi - venne presa dalla Consulta in un momento di grande lotta politica sulle tematiche della giustizia. Avevo chiesto al plenum eliminare questo consenso alla possibilità del pm di impugnare le sentenze di assoluzione, considerandola un’assurdità per due ordine di motivi: in primo luogo perché una condanna deve intervenire se c’è una responsabilità oltre ogni ragionevole dubbio e se dopo un dibattimento un giudice ha ritenuto di assolvere non si può dire che questo dubbio non ci sia; in secondo luogo perché la posizione dell’assolto che viene condannato in appello è terribile, avendo solo la possibilità del ricorso per Cassazione e, quindi, non potendo più chiedere la rivalutazione del merito, in contrasto con il principio di non colpevolezza. È auspicabile che il nuovo Parlamento intervenga - conclude il laico del Csm -, sarebbe veramente una forma di giusto processo e di attuazione piena della Costituzione. E per quanto riguarda l’improcedibilità, la cosa migliore sarebbe ripristinare la vecchia prescrizione, che disgraziatamente era stata eliminata con il fine processo mai».