«L’unica ragione che giustifica storicamente la bocciatura della legge che eliminava l’appellabilità delle sentenze di assoluzione è che non si è voluto dar torto ai pm che non volevano perdere questo potere». A dirlo, al Dubbio, è Gaetano Pecorella, avvocato e padre della legge che, 15 anni fa, aveva impedito la possibilità di impugnare le sentenze di assoluzione pronunciate in primo grado, norma poi bocciata dalla Consulta.

Il caso Burzi riapre il dibattito sulla possibilità di impedire l’appello per le sentenze di assoluzione.

È bene ricordare che la Commissione Lattanzi aveva predisposto un progetto di riforma generale per il ministro Cartabia che prevedeva nuovamente, tra le altre cose, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione di primo grado da pm. Non è da poco sapere che Lattanzi sia stato non solo presidente della Corte costituzionale, ma anche magistrato presidente di sezione di Cassazione e che abbia scritto moltissimi lavori di grande interesse. Questo per dire che evidentemente la mia proposta dell’epoca non era affatto isolata e non lo è neanche oggi. La cosa grave è che il ministro Cartabia abbia del tutto ignorato questa proposta, il che fa pensare che, ancora una volta, la pressione della magistratura abbia avuto i suoi effetti.

Questa vicenda ci racconta come i tempi della giustizia e anche le sue modalità d’azione possano influire sulla vita delle persone in modo tragico. In questo caso con gesti estremi, che ci riportano indietro ai tempi di Tangentopoli. Come commenta questo caso?

Come sappiamo, non è il primo suicidio collegato a inchieste. Alcuni hanno segnato la storia della nostra magistratura in modo pesante, senza considerare che quelli in carcere aumentano ogni anno e sono il segno di una giustizia che invece di garantire alla fine uccide coloro che ne sono vittime. È una giustizia che non avrei difficoltà a definire assassina, senza dare la colpa a nessuno, visto che se la gente si uccide qualcuno ne ha determinato la morte con qualche persecuzione o con tempi lunghi. Le vite delle persone rimangono appese a un filo in attesa di sapere cosa altri uomini decideranno del loro futuro.

Da cosa era nata la sua proposta di legge?

Una delle ragioni che aveva determinato la mia proposta, che peraltro traeva spunto da un congresso di Magistratura democratica, era quella di ridurre i tempi del processo. Il giudizio di appello contrasta nettamente con il sistema processuale che abbiamo adottato, perché si basa sulle carte e non sulla formazione della prova direttamente nel contraddittorio delle parti. Dopo che la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale la legge sull’inappellabilità, la giurisprudenza è stata costretta a trovare dei rimedi a una situazione che era obiettivamente contraria al principio della formazione della prova in contraddittorio e alle direttive dell’Unione europea. I rimedi sono però abbastanza grotteschi: nel caso in cui la Corte d’Appello intenda modificare l’assoluzione deve rinnovare la prova dichiarativa. Ma il punto è la struttura generale del processo. Con la stessa legge era stato introdotto il principio dell’aldilà di ogni ragionevole dubbio, che per fortuna non è stato dichiarato incostituzionale. E non si vede come sia possibile, laddove in primo grado i giudici hanno ritenuto, sulla base di prove raccolte direttamente, che la persona sia innocente, che quegli stessi elementi in appello diventino prova di colpevolezza. Tant’è vero che la legge che all’epoca fu approvata consentiva l’appello solo nell’ipotesi in cui il pm avesse indicato prove nuove.

Il presidente vicario del Tribunale di Milano ha definito una cattiva idea quella di impedire l’appello delle sentenze di assoluzione, in quanto esse stesse potrebbero rappresentare un errore giudiziario. Come risponde a questa affermazione?

Nelle regole del nostro processo, la prova che conta è quella che viene formata nel contraddittorio delle parti e davanti al giudice che deciderà. Il processo accusatorio non prevede mai un appello da parte del pm. E questo perché un errore giudiziario è più facile si faccia sulle carte che non davanti a un giudice che ha visto in faccia i testimoni, li ha sentiti e ha posto loro domande. È una furbizia quella di dire che l’errore potrebbe essere fatto in primo grado. Se accade in secondo grado cosa facciamo? Estraiamo a sorte chi ha ragione? Questo non è accettabile e lo è così poco che la stessa giurisprudenza dice che nell’ipotesi bisognerebbe rinnovare le audizioni. Ma io mi domando: se sulla base di quelle audizioni una persona è stata assolta, com’è possibile che sulla base delle stesse possa reggersi una condanna al di là di ogni ragionevole dubbio?

Soprattutto dopo anni gli stessi testimoni potrebbero non ricordare più cos’è successo.

Non è pensabile che in secondo grado si avvicinino alla verità più di quanto lo facessero in primo grado, visto che il tempo incide sulla memoria e sui particolari. Direi che l’unica ragione che giustifica storicamente quello che è avvenuto è che non si è voluto dar torto ai pm, che non volevano perdere questo potere.

La Consulta bocciò però la sua legge. Come giudica quella sentenza?

Come una delle più inaccettabili. Il ragionamento si basò sull’articolo 3, cioè sulla parità delle parti. Ma quando mai si può dire che c’è una parità delle parti, nel processo penale, tra accusa e difesa? Il pm ha giustamente dei poteri che la difesa non può avere, però mentre la difesa come diritto costituzionale ha quello di difendersi sempre fino alla sentenza definitiva, perché c’è l’articolo 24, nulla prevede la Costituzione per quanto riguarda il potere del pm di appellare. L’appello non è un diritto costituzionale. L’unica obbligatorietà è quella di iniziare l’azione penale, ma non quella di andare avanti, altrimenti il pm dovrebbe appellare sempre.

Con la riforma del processo penale è cambiato qualcosa?

Aver eliminato l’inappellabilità è un grave torto che il ministro Cartabia ha fatto alle garanzie individuali. Una persona resta sotto processo per tempi enormi, incalcolabili, tant’è che poi alla fine la sua resistenza fisica si logora e una persona perbene può arrivare al suicidio. Perché il problema è quello: un innocente che per anni viene indicato come presunto colpevole può anche perdere fiducia in tutto, in se stesso, nelle istituzioni. Può perdere la famiglia, l’onore… Se avessero un po’ più di cultura alcuni magistrati andrebbero a vedere come nei Paesi anglosassoni, da cui noi abbiamo mutuato il modello, l’appello del pm non esiste.

Il pg di Torino ha quasi ipotizzato il vilipendio nei confronti della magistratura per chi ha associato il suicidio di Burzi alla sua vicenda giudiziaria.

Questa tecnica delle “minacce”, in un Paese in cui c’è la libertà di pensiero e la libertà di criticare le sentenze e la magistratura non è solo inopportuna, ma anche un grave abuso, secondo me. Ho vissuto tante vicende giudiziarie e posso dire che un assolto in primo grado vive un eventuale capovolgimento della sentenza in appello in maniera molto più traumatica di una condanna in primo grado. Quando dopo anni tutto si capovolge si immagini qual è il dramma interiore che una persona perbene può vivere. Più che minacciare chi ha delle critiche da fare, forse sarebbe più opportuno che si valutasse più a fondo quello che certi magistrati fanno e come lo fanno. Una critica non può essere considerata vilipendio.