Sì, non è la prima volta. Già in passato altri avevano insinuato che gli avvocati dei detenuti per reati di mafia fossero istitutivamente collusi con i loro assistiti. Ma un titolo apparso oggi sul Fatto quotidiano (incoerente anche rispetto alla correttezza dell’articolo) trapassa qualsiasi limite: “La Consulta cancella la censura sulla corrispondenza fra i detenuti al 41-bis e avvocati. Geniale: così i boss potranno ordinare omicidi e stragi”. In pratica si attribuisce ai difensori dei reclusi al 41 bis uno stigma di mafiosi di default: se assistete i boss, siete pure voi certamente pronti a tutto, collusi o “colludibili”. Forse non vale neppure la pena di soffermarsi troppo nel replicare. Non è il caso di ricordare, a chi ha superato un esame da giornalista professionista, e conosce dunque senz’altro le basi del diritto costituzionale, il contenuto dell’articolo 24. È più interessante un’analisi sociologica. A partire da un interrogativo: perché? Come si può scrivere una cosa del genere? Non veniteci a raccontare che quello 0,001 per mille di casi in cui si è ravvisata e provata una effettiva collusione di un avvocato con un assistito mafioso basti a giustificare quel titolo. È evidente che non è così: il Fatto allude implicitamente a una moltitudine di casi, quindi non ha agganci col reale. È solo un insulto a casaccio. All’intera classe forense. La risposta al “perché” è altrove. E per trovarla va citato un altro titolo offensivo apparso oggi sulle pagine palermitane di Repubblica in cui in pratica si descrive la classe forense come un esercito che “se ne approfitta”: “Avvocati in coda: è qui la festa del gratuito patrocinio”. Nell’articolo, anche qui corretto, si segnala che il capoluogo siciliano è il Foro in cui si registra il maggior numero di richieste per il beneficio (che, andrebbe ricordato, non è “gratuito” ma appunto a carico dello Stato). Nella titolazione c’è un disprezzo un filo meno sguaiato di quanto visto su Fatto. Ma si può scorgere lo stesso fastidio per il diritto di difesa, il sogno di una giustizia sommaria, rapida e autoritaria in cui, come in Ritorno al futuro, l’avvocato viene semplicemente “abolito”. È un’insofferenza non per la categoria degli avvocati ma per il diritto. Nel caso di Repubblica, per il diritto dei non abbienti a essere difesi in giudizio, che per un giornale progressista dovrebbe essere un valore. Perciò forse non c’è neppure da offendersi. Ma da interrogarsi su quanto sia radicata nel nostro paese una cultura autoritaria, del diritto e non solo, con cui sarà sempre difficilissimo confrontarsi.

Le reazioni dell’avvocatura

Sono certo più che giustificate le reazioni di diverse voci dell’avvocatura. Da segnalare innanzitutto la replica, serafica, dell’editore del Dubbio: “L’avvocatura è grata a Travaglio per averla promossa al rango di criminale”. Se sono indignati, liquidatori ma non privi di un rimando a querele per diffamazione i toni dell’Ucpi (di cui vi diamo conto in altro servizio, nda), sconcertato ma più “piano” è il comunicato di Ocf: quella della Consulta, osserva l’Organismo forense, è una sentenza «ineccepibile» e perciò «stupiscono certi commenti secondo cui in questo modo si favorirebbe la mafia e i boss al 41 bis potrebbero così più facilmente aggirare le restrizioni continuando a gestire i clan dal carcere, magari ordinando la commissione di reati. Non solo. Questo genere di sottolineature», fa notare l’Ocf, «gettano il discredito su un’intera categoria, quella forense, che per il solo fatto di assicurare il diritto costituzionalmente garantito a un boss recluso, automaticamente si presterebbe a veicolare gli ordini della criminalità organizzata». L’Aiga è ancora più esplicita nell’esprimere «il proprio fermo dissenso» per le parole del Fatto: che, secondo il presidente dell’Associazione giovani avvocati, Francesco Paolo Perchinunno, sono «gravissime e irricevibili». Parole che «mancano di rispetto a tutta l’avvocatura e in particolar modo a quei colleghi, ancora vivi nella nostra memoria come Fulvio Croce e Serafino Famà, che hanno pagato con la vita quel dovere di indipendenza che ogni avvocato assume con il giuramento. Non si può paragonare l’avvocato ad un favoreggiatore o complice del condannato, così si mortifica la funzione difensiva, svolta con grande passione, competenza e dedizione da migliaia di colleghi. Sarebbe il caso di ricordare al Fatto quotidiano, come il diritto alla difesa sia uno dei cardini della Costituzione e di come certi commenti non facciano nient’altro che portare l’Italia verso una deriva giustizialista». Su un registro non diverso da quello molto aspro della nota Ucpi è la replica dell’Associazione nazionale forense: «Grave, offensiva e inopportuna affermazione del Fatto Quotidiano nei confronti dell’intera categoria degli avvocati». Il giornale, ricorda il presidente dell’Anf Giampaolo Di Marco, «si è lanciato in un’affermazione vergognosa e imbarazzante. Gli avvocati non sono messaggeri di criminalità o corrieri, ma professionisti a cui le persone, anche coloro che sono stati condannati per reati gravissimi, affidano il loro destino affinché ottengano il trattamento più giusto ed equo previsto dall’ordinamento». Di Marco aggiunge: «L’inaccettabile affermazione non può essere considerata una battuta o una semplificazione e neppure una legittima opinione, ma un attacco giustizialista che mina le basi dello Stato di diritto e non rende un buon servizio alla percezione del sistema Giustizia nel nostro Paese, anche perché con il suo intento acchiappa-like dirotta l’attenzione da quanto correttamente scritto dalla Corte, ovvero che vi sia una “generale e insostenibile presunzione di collusione del difensore dell’imputato, finendo così per gettare una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela non solo dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello stato di diritto nel suo complesso”».