Pubblichiamo di seguito l'intervento integrale dell'Associazione “Il Carcere Possibile Onlus” sulla riforma dell'ergastolo ostativo Si è appreso dall’Ansa del 17.11.2021 che la Commissione Giustizia della Camera “ha votato il testo base della riforma dell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario”. Lo ha annunciato il presidente della Commissione – il deputato del Movimento 5 stelle Mario Perantoni – spiegando che "Il testo interviene con il fine di recepire l'orientamento della Corte costituzionale che chiede una revisione della norma attuale. Abbiamo trovato una mediazione tra i valori espressi dalla Consulta e la necessità di mantenere il rigore nei confronti della detenzione dei boss mafiosi, un obiettivo per noi irrinunciabile. Renderò presto noto il termine per la presentazione degli emendamenti". Si apprende, altresì, che in commissione hanno votato in favore dell'adozione del testo tutti i gruppi esponenti dei diversi partiti ad eccezione di quello espressione di Fratelli d’Italia. La dichiarazione rilasciata dal presidente Perantoni, seppur estremamente concisa, ha lasciato presagire che il testo licenziato non avesse affatto recepito i principi espressi dalla Consulta con l’ordinanza 97/2021 che ha accertato l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo. Se ne è avuta amara conferma quando il testo approvato in commissione è giunto sulle scrivanie di chi – come noi – seguiva i lavori della Commissione ed aveva accolto con entusiasmo la notizia della mancata adozione della proposta elaborata dal Movimento 5 stelle quale testo da cui partire per la modifica dell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario. Era stato, invero, annunciato che il testo da adottare per iniziare i lavori di riforma sollecitati dalla Corte Costituzionale, sarebbe stato il prodotto di una mediazione tra le tre proposte inizialmente depositate – quella della deputata dem Bruno Bossio, quella del deputato 5 stelle Ferraresi e quella del deputato di Fratelli d’Italia Mastro Delle Vedove - cui si è aggiunto in corso d’opera il testo redatto dalla Fondazione Falcone. Ebbene, il testo licenziato non costituisce affatto, nonostante sia stato votato alla quasi unanimità, la sintesi tra le proposte inizialmente valutate; in particolare, mancano i tratti che caratterizzavano il testo della deputata Bruno Bossio ovvero dell’unico testo che, seppur redatto precedentemente all’intervento della consulta, era ispirato dai medesimi principi e perseguiva i medesimi obiettivi dell’ordinanza citata. La spiegazione di quanto accaduto la si rinviene proprio nelle parole del presidente Perantoni riportate nell’incipit del presente scritto che offrono la plastica rappresentazione del contesto all’interno del quale sta maturando la riforma dell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario. Non vi è alcuna voglia di esplorare, in un’ottica riformista, l’eterogeneità e la complessità delle idee di politica criminale tant’è che la proposta della Bruno Bossio, realmente fondata sul principio rieducativo di cui all’art. 27 della Costituzione, è stata completamente pretermessa. Vi è, invece, la tendenza a polarizzare le posizioni, da un lato ci sono le forze politiche che propongono il costante accrescimento di una giustizia sempre più punitiva e, dall’altro, i giuristi e la Corte Costituzionale che - anche alla luce delle pronunce della Corte Europea - intendono offrire al Paese una svolta di civiltà umana e giuridica. Ed allora accade che, onde evitare l’intervento demolitorio della Consulta in ordine all’istituto della liberazione condizionale (per gli ergastolani ostativi non collaboranti) che interverrebbe allo scadere del termine fissato all’11 maggio 2022, le forze politiche di vocazione panpenalistica, attualmente maggioritarie, osteggiano il raggiungimento dell’obiettivo riformista imposto dalle Alte Corti europea ed italiana. Il testo base licenziato dalla Commissione, che è figlio della proposta Ferraresi, appare in parte addirittura “peggiorativo” della disciplina vigente e si pone in conflitto con il contenuto della decisione della Corte Costituzionale e con quello delle pronunce della CEDU. In primo luogo, si prevede un’inversione dell’onere della prova ponendo un obbligo di allegazione a carico del condannato non collaborante. È, infatti, il condannato a dover offrire elementi probatori specifici (le “allegazioni”) che consentano di escludere con certezza sia l’attualità di collegamenti tra sè e la criminalità organizzata sia il pericolo del loro ripristino. Il testo di legge esclude che la non attualità dei legami con la criminalità organizzata sia dimostrabile esclusivamente attraverso la “mera” dichiarazione di dissociazione dall’eventuale organizzazione criminale di appartenenza ed è fatto obbligo al condannato di dimostrare l’integrale adempimento delle obbligazioni civili derivanti da reato. In altri termini, si chiede al detenuto ergastolano - che è recluso da decenni - di dimostrare ciò che dovrebbero, di contro, accertare le autorità pubbliche preposte allo svolgimento di tale attività. Se, come indicato nella proposta di legge, la dichiarazione di dissociazione e la partecipazione fruttuosa ai programmi di reinserimento e rieducazione non sono sufficienti all’ottenimento del beneficio, lo sforzo del legislatore dovrebbe essere proteso ad individuare, tenendo fede il più possibile ai principi di determinatezza e tipicità, quali siano gli elementi dai quali il Tribunale di sorveglianza possa (e non necessariamente debba) trarre il proprio convincimento. La verità è che non si può pretendere, scrivendolo chiaramente in un testo di legge, dal condannato ergastolano di dimostrare qualcosa di diverso dalla dissociazione e dal positivo percorso rieducativo, al fine di valutare la concedibilità dei benefici. È questa, dunque, la ragione che ha determinato la scelta di redigere un testo che, con specifico riferimento alle prove positive adducibili dal condannato (“le allegazioni”), presenta profili di profonda indeterminatezza e, pertanto, sembra volto ad osteggiare la concessione dei benefici. In un’ottica di lealtà ai principi Costituzionali, spetterebbe esclusivamente al comitato provinciale per l’ordine e per la sicurezza pubblica competente il compito di verificare l’esistenza di elementi che accertino l’attualità dei legami del condannato richiedente il beneficio ed il contesto criminale, lasciando che il detenuto sia onerato di provare esclusivamente ciò che può provare ovvero dimostrare di aver svolto un percorso rieducativo serio e di aver eventualmente reso una dichiarazione di dissociazione. Il dato centrale di cui non vi è traccia nel testo è, pertanto, l’individuazione di quali possano essere i processi rieducativi diversi dalla collaborazione che consentano l’accesso ai benefici. Emerge, di contro, una tensione protesa a rendere marginale la concessione di tali benefici dando centralità assoluta al dato probatorio e ad imbrigliare la magistratura di sorveglianza sulla quale graverà l’arduo compito (pressoché impossibile) di verificare, in termini di assoluta certezza, la rescissione di qualsivoglia legame del condannato non collaborante con la criminalità organizzata e l’inesistenza di un pericolo di ripristino di tali collegamenti non soltanto diretti, ma anche indiretti o tramite terzi. Appare poi del tutto ingiustificata la previsione di intervento – nella procedura di sorveglianza - del pubblico ministero presso il tribunale del capoluogo di distretto ove è stata emessa la sentenza di condanna di primo grado e del Procuratore Nazionale Antimafia ai quali è affidato il compito di redigere un parere.Sul punto, non ci si può esimere dall’esprimere la propria contrarietà all’acquisizione di pareri atteso che, come indicato nella relazione illustrativa della deputata Bruno Bossio, “le informazioni propedeutiche alla concessione dei benefici non devono contenere pareri sulla concedibilità o meno del beneficio, ma fornire esclusivamente, qualora ve ne siano, elementi conoscitivi concreti e specifici fondati su circostanze di fatto espressamente indicate che dimostrino in maniera certa l’attualità di collegamenti dei condannati o internati con la criminalità organizzata. Qualora alla magistratura di sorveglianza pervenissero pareri sulla concedibilità, gli stessi non potrebbero essere utilizzati”.La magistratura di sorveglianza, inoltre, in caso di pareri “negativi” è caricata di un onere motivazionale rafforzato affinché dia conto delle ragioni per cui ha ritenuto di superare i contenuti di tali pareri.Orbene, posto che l’obbligo motivazionale dei provvedimenti giurisdizionali racchiude in sé il confronto con ciascuna delle argomentazioni addotte dalle parti, l’imposizione di una motivazione rafforzata appare esclusivamente un segno di sfiducia nei confronti della magistratura di sorveglianza - che da sempre viene manifestata quando la stessa è chiamata a valutare la redimibilità dei condannati per reati ostativi – ed un monito volto a scoraggiare l’adozione di provvedimenti pro libertate. È prevista inoltre la modifica dell’art. 176 c.p., con la previsione che il condannato all’ergastolo “ostativo” non collaborante possa accedere alla liberazione condizionale dopo aver scontato 30 di pena – a fronte degli attuali 26 previsti per gli ergastolani - e dell’art. 177 c.p. con un innalzamento da cinque a dieci anni del tempo trascorso dalla data del provvedimento di liberazione condizionale, per il solo ergastolano “ostativo” non collaborante, al fine di ottenere l’estinzione della pena. Ed ancora, l’applicazione della libertà vigilata più incisiva (per tutto il periodo) nel caso in cui sia accordata la liberazione condizionale ad un ergastolano ostativo non collaborante rappresenta la più grande manifestazione di sfiducia nei confronti non soltanto dell’ergastolano, ma del principio rieducativo.È dunque fondato il timore, si ribadisce, che l’obiettivo perseguito non sia quello di creare il terreno fertile alla compiuta attuazione dell’art. 27 della Costituzione, ma semplicemente di rendere quanto più difficoltoso possibile l’accesso ai benefici. Urge più che mai un cambio di paradigma. Le ultime due ordinanze della Corte Costituzionale sul tema e la sentenza della CEDU nel procedimento Viola contro Italia, che hanno istituito il diritto alla speranza a seguito del costante impegno di giuristi e associazioni, hanno suscitato, di contro, sconcerto e profondo disappunto in una parte della magistratura e della cittadinanza indotta ad inseguire il falso e fuorviante obiettivo della sicurezza collettiva messa in pericolo dall’eventuale scarcerazione, dopo trent’anni di detenzione, di condannati per reati di criminalità organizzata. Ne è seguito l’arroccamento di parte della politica sulle grottesche posizioni securitarie proprio al fine di evitare che i principi enunciati dalle Corti potessero trovare attuazione. Eppure, il superamento dell’ergastolo ostativo non è che un frammento nel percorso che, partendo dalla risalente abolizione della pena di morte, dovrà necessariamente condurre all’abolizione dell’ergastolo così come più volte proposto da diverse commissioni parlamentari a partire dagli anni 70 sino al progetto di riforma Grosso. Il vento che spira finalmente dalla magistratura costituzionale non può essere sopito e represso dallo strumentale utilizzo di sterili politiche securitarie. Al centro del percorso di espiazione della pena deve essere posto il condannato ed il suo magistrato di sorveglianza. Soltanto questi, lontano dalle logiche – talvolta distorsive - di “lotta al crimine” e consapevole dell’intero percorso effettuato nei decenni dal detenuto all’interno del reclusorio, potrà, libero da pareri “sostanzialmente” vincolanti degli uffici di procura, stabilire se è giunto il tempo di riconnettere il detenuto con la società civile. In quest’ottica, si auspica che la commissione giustizia, che sta elaborando la riforma dell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, abbia interesse ad incrementare le audizioni al fine di recepire ogni suggerimento che possa emendare il testo base elaborato rendendolo aderente ai principi costituzionali ed in linea con il percorso di civiltà giuridica che le Alte Corti hanno tracciato. Si auspica in particolare che il legislatore profonda il massimo impegno per elaborare ed indicare i processi rieducativi che, in alternativa alla collaborazione, consentano alla magistratura di sorveglianza di orientarsi e comprendere se il detenuto sia o meno pronto per essere reinserito all’interno della comunità.