Il contributo unificato da pagare prima dell'inizio di ogni procedimento, secondo quanto previsto dall’articolo 192 del ddl Bilancio, ha provocato l’indignazione dell’avvocatura. La norma stabilisce anche che, in caso di omesso pagamento o di versamento non conforme al valore della causa dichiarato, il personale addetto non deve procedere all’iscrizione della causa a ruolo. Le disposizioni che mettono mano alla disciplina principale, prevista dal Dpr 115/2002 (Testo unico in materia di spese di giustizia) hanno provocato la protesta di chi ogni giorno è in prima linea per la difesa dei diritti e della Costituzione. Una barbarie giudiziaria inaccettabile.

Contributo unificato, parlano i presidenti dei Coa

La Carta costituzionale viene considerata da Antonino Galletti, presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Roma, fortemente minacciata. «Si demolisce – afferma - un principio basilare dello Stato di diritto, posto a garanzia del sistema democratico e dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla Legge e si sancisce il principio inconcepibile per lo Stato, secondo cui un processo non può essere celebrato e un diritto riconosciuto a causa del mancato pagamento di poche centinaia di euro. È altrettanto evidente che in tal modo si favoriscono le parti che hanno una maggiore disponibilità economica, rendendo più difficile l'accesso alla giustizia per i meno abbienti. Con il malcelato scopo di ridurre l'ingolfamento dei processi, si viene goffamente a creare una giustizia classista che è l'esatto contrario dello spirito e dei dettami costituzionali». Servono agevolazioni non complicazioni. «L’avvocatura – riflette Vinicio Nardo, presidente del Coa di Milano - deve tendere ad un esercizio della professione ordinato e mai sciatto, per cui è buona prassi che chi riceve un incarico si faccia anticipare dal cliente quantomeno le spese vive di iscrizione della causa. Tuttavia, per le eccezioni, se anche ci sono casi di iscrizioni a ruolo con pagamento inesatto del contributo unificato, non credo sia corretto subordinare alla volontà degli uffici il potere di iscrivere o non iscrivere la causa a ruolo. L’ordinamento giuridico deve favorire e non ostacolare la difesa, che è un diritto di rango costituzionale. Come la salute nel nostro Paese, nessuno si sognerebbe mai di non raccogliere un ferito da terra, senza previo ed esatto pagamento del ticket». Secondo Antonio Armetta, presidente Coa di Palermo, «la previsione finalizzata ad impedire l'iscrizione a ruolo dei giudizi in caso di omesso totale pagamento del contributo unificato mette in crisi lo stesso impianto su cui si fonda il sistema giustizia». «Non è possibile – afferma Armetta - prevedere una barriera all'ingresso per il caso di inadempimento di una obbligazione tributaria. Una tale impostazione è del tutto inammissibile, inaccettabile e, soprattutto, incostituzionale. La politica deve smettere di pensare di fare cassa a scapito della tutela dei diritti, riducendoli a merce sacrificabile e negando, così, un principio elementare ed intoccabile del nostro sistema processuale». Chiede una modifica immediata della norma Rosario Pizzino, presidente Coa di Catania, così come sostenuto da Cnf e Ocf. «Il contributo unificato – dice - non può essere un’arma impropria per impedire l’accesso alla macchina giudiziaria. Questa impostazione viene da lontano. Molti, troppi, i rincari in questi anni, pur sapendo che parliamo di una tassa su un diritto costituzionale. Il cittadino non paga il ticket per andare dal medico di famiglia o al pronto soccorso, ma per avere giustizia sì». Il rischio di un punto di non ritorno è dietro l’angolo, sostiene Stefano Pulidori, presidente del Coa di Pisa. «Quanto previsto dall’articolo 192 del disegno di legge di bilancio – commenta - esprime uno dei punti più bassi della normazione fiscale in materia di giustizia. Al di là dei problemi applicativi che ne deriverebbero, che non sono pochi e ne amplificherebbero la chiara negatività, essa stride con l’articolo 24 della Costituzione e con consolidati principi di civiltà giuridica, espressi nelle sentenze della Corte Costituzionale n. 333/2001 e n. 522/2002 e, prima ancora, nelle decisioni n. 100/1964 e n. 80/1966 e, dopo, nella n. 198/2010. Col cosiddetto governo dei migliori tocca quasi rimpiangere il Parlamento della V legislatura, che, nella Legge 825 del 9 ottobre 1971 dava delega al governo Colombo di “eliminare ogni impedimento fiscale al diritto dei cittadini di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi”. Altri tempi». «Si tratta di una proposta inaccettabile e gravemente lesiva dei diritti dei cittadini», commenta Angela Maria Odescalchi, presidente del Coa di Lodi. «Non consentire l'iscrizione a ruolo di una causa civile – aggiunge l’avvocata Odescalchi -, significa impedire che il processo inizi e, quindi, di fatto, impedire al cittadino l'accesso alla tutela giurisdizionale, costituzionalmente garantita. L'iscrizione a ruolo deve essere proposta entro termini perentori previsti dal codice di rito, al cui decorso è collegata l'improcedibilità della domanda, con il conseguente grave rischio che il cittadino si trovi nella necessità di procedere ad una nuova notifica dell'atto introduttivo. Non è la prima volta che si tenta di minare l'esercizio giurisdizionale dei diritti, subordinandolo al pagamento di un’imposta». Parla di denegata giustizia Italia Elisabetta D’Errico, presidente del Coa di Bologna. «Ancora una volta il legislatore tenta di introdurre modifiche sostanziali, che mal si conciliano con i principi costituzionali, ribaditi più volte dalla Corte Costituzionale, inibendo o comunque limitando il diritto del cittadino a ricorrere al giudice, attraverso leggi volte a regolamentare ambiti diversi da quello cui si riferisce la proposta di modifica in oggetto». L’idea di una “giustizia a pagamento” è quanto di più riprovevole. Roberto Brancaleoni, presidente del Coa di Rimini, non usa mezzi termini: «Trovo inaccettabile in via generale – afferma - il concetto di "giustizia a pagamento" e trovo addirittura paradossale che si voglia introdurre una norma come questa proprio nel periodo della pandemia e della connessa crisi economica che tanto affligge i cittadini. Il presidente Draghi ha detto che "questo non è il momento di togliere, questo è il momento di dare" ed invece con questa norma si vorrebbe togliere. Si vorrebbe togliere l'accesso alla giustizia a chi, magari per una difficoltà momentanea, non riesca a versare, anche solo in minima parte, una imposta preventiva». Giovanni Stefanì, presidente del Coa di Bari, definisce la norma del ddl Bilancio “illegittima, ingiusta e irragionevole”: «Illegittima perché introduce un inammissibile ostacolo all'accesso alla tutela giurisdizionale contrario alla nostra Carta costituzionale, così come più volte affermato dalla stessa Corte di legittimità delle leggi. Ingiusta perché introduce una grave diseguaglianza sociale, venendosi a creare disparità di situazioni in base alla capacità economica dei soggetti che intendano avvalersi della funzione giurisdizionale. Irragionevole la commistione tra una norma di chiara matrice fiscale-tributaria e le norme processuali».

Le reazioni della politica

Per l’ex ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, «un conto è migliorare l’efficienza e i tempi della giustizia, altra cosa è ostacolare l’accesso alla giustizia. Non è immaginabile che nel nostro Paese le aule di giustizia, in cui è esposta la scritta “La legge è uguale per tutti”, diventino, nei fatti, salette riservate a coloro che possono economicamente permetterselo». Jacopo Morrone, deputato della Lega, si associa «alle preoccupazioni espresse dagli avvocati di Roma, Milano e Napoli rispetto a quanto previsto nell’articolo 192 del ddl Bilancio» ed è convinto «che l’articolo in oggetto debba essere cancellato dal provvedimento in cui è stato inserito». La norma sul Cu è per Piero De Luca, vicepresidente del gruppo Pd alla Camera, «iniqua e sbagliata e così configurata appare in realtà una forma di inciviltà giuridica». Dalla Commissione Giustizia del Senato si apprende che potrebbe arrivare oggi una proposta di emendamento per correggere, almeno in parte, la norma contestata.